Lo scontro inevitabile del PD
Sapremo presto se il dissenso interno al Pd sulla riforma elettorale deflagrerà e produrrà effetti politici o se invece – come sembrerebbe dal primo passaggio sugli emendamenti in commissione – tutto si ridurrà a tentativi di bandiera. La decisione di non portare fino in fondo modifiche sulle quali non siano d’accordo tutti i presentatori dell’Italicum è incoraggiante, ma va sottoposta alla verifica dei fatti e soprattutto del voto a scrutinio segreto in aula.
È su questo passaggio che pesa la minaccia di Matteo Renzi. Ascoltata per la quarta o quinta volta in pochi giorni, non suona un bluff. E del resto sarebbe inevitabile per il segretario del Pd non subire passivamente la bocciatura in campo aperto di un accordo sul quale si è esposto tanto. Ci sarebbero tutti gli argomenti validi da parte sua per dichiarare chiusa la legislatura e per presentarsi agli elettori con una carica rottamatrice moltiplicata dalla delusione subita. Gli effetti di un voto col sistema “ritagliato” dalla Corte costituzionale non sarebbero certo di governabilità: intanto però Renzi ne uscirebbe come leader battezzato dalle urne, mentre la maggioranza degli attuali parlamentari sparirebbe prematuramente nell’oblio. E loro lo sanno.
Intendiamoci. Fallimento del tentativo di riforma istituzionale, crisi di governo ed elezioni anticipate rimangono lo scenario meno probabile, anche per il presidio rappresentato dal capo dello stato. Ma nessuno può sentirsi tanto forte o incosciente da sfidare la sorte.
Intanto va però notato che, nelle pieghe della vicenda della riforma elettorale, sembrerebbe essersi consumato il primo equivoco dell’epopea Renzi.
Giorni fa sulla Stampa Luca Ricolfi notava le reazioni infastidite della sinistra tradizionale rispetto a modi, tempi e contenuti dell’azione del segretario Pd. Ora dalle reazioni umorali siamo passati ai fatti politici: Sel è uscita dal congresso in rottura col Pd, cancellando le impressioni su un buon mood fra Vendola e Renzi e anche l’ipotesi di intese elettorali o addirittura di confluenze.
Stiamo parlando di un mondo che non s’è ancora ripreso dal passaggio di Grillo-Gengis Khan, che ha lasciato terra bruciata lì dove sopravvivevano lacerti di cultura politica anticapitalista. A Rimini s’è avvertito il risucchio verso radicalismi italiani (l’ingroismo senza Ingroia) e soprattutto europei (la scelta di appoggiare Tsipras invece di Shultz).
Certo, sono posizionamenti da leggere più in chiave di trattativa a breve sulle soglie della legge elettorale e di campagna elettorale per le Europee. Potrebbero rientrare alla vigilia di elezioni politiche, intanto però confermano la profezia di Ricolfi: dopo il primo stordimento e la prima sconfitta nelle primarie, la sinistra “di prima” reagisce al ciclone Renzi. Dopo Sel, toccherà ai sindacati, quando il Jobs Act sarà definito e pubblico. Lì si misurerà la capacità renziana di mantenere vivo il proprio abile trasversalismo affrontando però di petto ogni conservatorismo. Com’è giusto che sia e come deve accadere, da Tony Blair a oggi.