Un normale speciale segretario del Pd
Volevate la sorpresa dal discorso di insediamento di Matteo Renzi? Quella su Beppe Grillo era un po’ spuntata, colpa di una gestione troppo generosa delle anticipazioni ai giornalisti. La mossa tattica ha una sua efficacia, vedremo se il risultato (schiacciare il M5S contro la sua stessa impotenza) sarà migliore di quanto già analogamente tentato da Bersani, in modo fallimentare, e da Letta, appena un po’ più energico.
La sorpresa però c’è stata lo stesso. Perché in una mattinata abbiamo archiviato mesi di letteratura giornalistica intorno alla natura, alle intenzioni reali e alla sostanziale insostenibilità della figura di Renzi come segretario di partito.
Il discorso della Fiera di Milano è stato ottimo, molto renziano, pieno di suggestioni, a tratti perfino entusiasmante. C’era la musica giusta, e a tratti durante e dopo il discorso, negli interventi di tanti giovani neodirigenti, s’è respirata aria di Leopolda divenuta egemone nel Pd.
Ma Matteo Renzi, inequivocabilmente, ha svolto una relazione da segretario di partito. Assolutamente canonica. Non era il candidato premier scalpitante, non era l’eterno rottamatore, non era la scheggia impazzita e impaziente dentro il sistema politico. Era il nuovo segretario del nuovo Pd, che con orgoglio e aggressività dettava la linea su due diversi orizzonti politico-temporali: i prossimi quindici anni, cioè l’arco che si concede per rovesciare l’Italia; e i prossimi quindici mesi, cioè il tempo che concede alla legislatura e al governo per conseguire alcuni forti specifici obiettivi. Un’impostazione che più tradizionale non esiste, condita dalla gestione delle questioni interne: coinvolgimento dei candidati sconfitti, ringraziamenti ad alcuni padri della patria, prime misure di riorganizzazione interna.
Enrico Letta seduto in prima fila avrà apprezzato (come Napolitano, in ascolto da remoto) i diversi riferimenti renziani al “semestre europeo guidato da Enrico”. È il timbro pubblico che conferma un assenso forse generico ma non meno vincolante che Renzi aveva dato al capo dello stato addirittura a metà ottobre, e che ha avuto modo di ribadire. Si chiude nel 2015, non prima, a scanso di catastrofi.
Il problema – la differenza tra il Nuovo Pd e quello di prima – sta in ciò che si colloca nel mezzo di questo arco temporale, e che per Renzi è contropartita irrinunciabile. Non impegni generici contro la disoccupazione, per la ripresa, per le riforme. Bensì punti di programma terribilmente specifici. Non solo la legge elettorale maggioritaria e bipolare, che rimane in testa alla lista. Ma anche la fine del bicameralismo. La revisione al ribasso di alcuni poteri delle Regioni. Un nuovo, radicale e fulmineo (un mese!) intervento sul mercato del lavoro, per la semplificazione delle norme (vecchio pallino di Ichino) e per un mezzo rovesciamento della logica degli ammortizzatori sociali. L’abrogazione della Bossi-Fini e l’introduzione del diritto di cittadinanza degli immigrati nati in Italia. Le unioni civili per le coppie gay.
Ascoltando l’elenco Letta applaudiva, pur sapendo che da oggi (anzi da gennaio: Renzi da perfetto segretario di partito ha fatto riferimento a passaggi temporali concordati col premier) si aprono fronti di potenziale conflitto coi sindacati, con Alfano e con Casini. È lo scotto che deve pagare, la parte della prova che spetta a lui di superare per riempire di significato un anno di governo che altrimenti apparirebbe di pura sopravvivenza.
In ogni caso, Letta ha lasciato Milano con un sollievo, e tutti dovrebbero archiviare con l’assemblea della Fiera anche il più diffuso gioco di società del momento: non ci sono sovrapposizioni di ruoli, non ci sono due premier né due candidati premier. Sicché la sorpresa più grande della fine del 2013 è proprio questa: che Matteo Renzi è da ieri “semplicemente” il segretario del nuovo Pd.
Del tutto normale anche se, lo sappiamo, determinato a pesare sulla politica italiana in modo molto speciale.