Il Pd di Renzi non saranno due
Matteo Renzi ha compiuto il passo più difficile della sua scalata alla leadership del Pd e del centrosinistra. Gli iscritti al partito gli hanno dato una maggioranza, sia pure relativa, che non poteva essere considerata scontata. Anzi, diciamo la verità: solo l’estate scorsa nessuno avrebbe potuto prevedere per l’ex alieno ed ex rottamatore un consenso tanto ampio nel cuore militante del Pd.
La vittoria di Renzi nelle convenzioni è il frutto di una impressionante avanzata fin dentro l’establishment democratico. Ma pur senza dare per scontato il risultato dell’8 dicembre, il dato importante è che probabilmente non si verificherà una contraddizione tra la consultazione interna e quella più larga e decisiva fra gli elettori.
Così si pone in termini meno drammatici la questione dei “due Pd”, apparsa clamorosa settimane fa nel contrasto fra i faticosi congressi provinciali di partito e la kermesse della Leopolda.
Oggi sappiamo meglio di che cosa stiamo parlando. Cioè sappiamo come la pensa il Pd-partito sul suo prossimo segretario. Sappiamo di che entità e natura sarà la minoranza interna e come essa vorrà usare il risultato degli iscritti. E quindi misuriamo i problemi di Renzi, ammesso che lui voglia considerarli tali: il suo modo di fare non suggerisce che dal 9 dicembre si metta a calcolare sul bilancino il peso dei dirigenti uscenti, locali e nazionali, che lo hanno appoggiato (senza i quali non sarebbe arrivato al 46,7 per cento) e di quelli che lo contrastano (e che guidano il Pd in molti territori).
Ma sappiamo anche che sarà un partito solo. Non due partiti, come si poteva temere, o sperare.
Come è noto, anche i rapporti di forza nei gruppi dirigenti nazionali, oltre che il nome del segretario, saranno definiti non dal voto delle convenzioni che si sono appena svolte, bensì dalle primarie popolari di dicembre. Sarà però giusto, e accorto, tenere conto del dato di queste ore: per quanto destinato a rapido oblio, è comunque una fotografia realistica di opinioni ben radicate.
Il 38,4 di Gianni Cuperlo è contemporaneamente il risultato più basso mai ipotizzabile fra gli iscritti per un candidato della segreteria uscente (a dimostrazione di quanto profondo e avvertito ne sia stato il fallimento); ma è anche una bella base di partenza nella speranza che il voto popolare fra tre settimane non sia tanto diverso, o possa addirittura essere migliore. Anche perché Cuperlo può puntare a erodere un po’ del consenso del candidato eliminato (un sorprendente Pittella: ieri in famiglia è stata davvero festa grossa) e di un Pippo Civati obiettivamente sotto le attese, innanzi tutto le sue.
I sondaggi non concedono speranze di rimonte straordinarie, però segnalano i progressi di Cuperlo e intanto fanno svanire quella che era una paura vera del suo campo: il piazzamento addirittura in terza posizione.
Tenendo conto degli inevitabili sforzi dell’uno o dell’altro fra i candidati per tenere le posizioni o per rimontare, è chiaro che i toni delle prossime settimane di campagna influiranno molto sulla tenuta e sulla forza complessiva della “ditta”, cioè del Pd, nella difficilissima stagione politica che si aprirà dopo.
Dovesse dipendere da colui che ha promosso la candidatura di Cuperlo, cioè Massimo D’Alema, i segnali sarebbero davvero preoccupanti.
Mentre l’ex segretario della Fgci cerca di portare argomenti comunque politici – soprattutto quello della indispensabilità di ancorare il Pd a posizioni di sinistra, senza scivolare indietro in quello che giudica un liberismo riverniciato di populismo – D’Alema carica la propria ostilità a Renzi di astio personale e di frustrazione. Propone contro i suoi avversari paragoni caricaturali (con la Dc delle tessere) e argomenti da rottamatore (contro l’establishment ora schierato con Renzi) clamorosamente improbabili da parte di uno come lui, con la sua storia.
Soprattutto, i due errori più gravi: D’Alema non resiste a mettere se stesso al centro della contesa, ignorando le suppliche che gli vengono dalla propria stessa area a lasciare che sia il candidato Cuperlo a vedersela con Renzi, e con ciò facendo sospettare motivazioni personali ben più forti di quelle politiche.
E poi riduce i voti per Cuperlo a una funzione meramente resistenziale, come se a quel 38,4 per cento di militanti sia affidata non la missione positiva di influire sulla linea del Pd, bensì solo la missione negativa di arrestare, frenare, ostacolare il progetto di qualcun altro. Una posizione tecnicamente reazionaria. Oltre tutto incoerente con il carattere, la storia e le idee di Gianni Cuperlo.
L’atteggiamento di chi recita la parte dello sfidante al favorito è importante per definire il clima. Per quel che valgono, i precedenti del 2007, del 2009 e anche dello scorso anno parlano tutti di una grande lealtà e di solenni impegni a lavorare insieme, “dopo”, in ogni caso. Mai ascoltate ricattatorie minacce di abbandono: non ne verranno di sicuro neanche questa volta a parte le frange estreme delle tifoserie ultrà. Anche Renzi però, pur con un compito più facile, ha una grande responsabilità. Ora sa che, se toccherà a lui, si troverà alla guida di un solo Pd: iscritti ed elettori, corpo militante e opinione pubblica allargata. Questo lo rafforzerebbe molto ma, paradossalmente, gli impedirebbe di svicolare rispetto al compito difficilissimo di rifondare il partito. Certo, possiamo scommettere che la sua proiezione principale sarà subito soprattutto esterna, e del resto già ora (caso Cancellieri) Renzi agisce sulla scena politica da segretario del Pd, che è anche il modo migliore per vincere le primarie. Ma dai circoli gli arriva un investimento che non potrà essere tradito. La sfida a fluidificare le posizioni interne invece di cristallizzarle. E soprattutto la chance di ripartire dopo le primarie senza compromessi fra nomenklature bensì con un patto, anche trasversale, per una nuova generazione di dirigenti democratici.