La debolezza di Napolitano e quella di Renzi
Giorgio Napolitano è stato impietoso, aspro, e del resto si trova a doverlo ribadire per l’ennesima volta: non è per un suo capriccio che il Pd arranca sul calvario delle larghe intese. Nella vicenda Alfano, Epifani paga oggi con gli interessi il prezzo amaro della sconfitta elettorale di febbraio, a lungo irresponsabilmente negata.
La logica ferrea enunciata al Quirinale si stringe intorno alla rabbia democratica, al desiderio sacrosanto ma irrealizzabile di punire l’incapacità e l’inattendibilità del ministro degli interni.
Tutti gli indicatori interni e internazionali avvertono che l’Italia è un paese in bilico, fra barlumi di ripresa e rischio di nuove emergenze finanziarie. Instabilità politica, avventurismi parlamentari, frenesie elettorali: sono comportamenti che Napolitano giudica sul filo del sabotaggio alla Nazione.
Un governo c’è, era l’unico consentito dagli equilibri parlamentari figli delle elezioni, e il capo dello stato dà un giudizio benevolo del lavoro svolto e di quello avviato. Da ieri abbiamo la conferma che finché al Quirinale rimarrà l’attuale inquilino l’Italia non avrà una maggioranza, un presidente del consiglio ed evidentemente un vicepremier diversi dagli attuali.
Forte nel tenere la rotta della legislatura, Napolitano non riesce a nascondere dietro le parole durissime sui casi Shalabayeva e Kyenge l’impotenza, anche sua, nell’evitare e nel sanzionare errori e follie.
Questo è il punto debole della sua posizione: l’impossibilità di spostare anche solo una carta del castello delle larghe intese gonfia la frustrazione del Pd. E l’incidente oggi scansato può ripresentarsi in qualsiasi istante.
Napolitano e lo stesso Letta sono troppo esperti per sottovalutare il pericolo di avere il partito perno della maggioranza in stato di insofferenza e fibrillazione permanente. E d’accordo che il novanta per cento dell’agitazione di quel partito deriva dalle incertezze legate al congresso, però né il caso Kyenge né il caso kazako sono esplosi per colpa di esponenti del Pd; in compenso, entrambi i casi si sono risolti, per adesso, a danno esclusivo dei democratici e del loro rapporto con un elettorato esigente, diffidente ed esasperato.
Non spetta a Napolitano farsi carico del problema (appunto: non è colpa sua, se Epifani deve governare con Berlusconi), però deve tenerne conto: ieri in parte l’ha fatto, quando ha annoverato la sentenza della Cassazione su Mediaset fra gli eventi esterni che non dovranno influire sulla stabilità politica. Speriamo che al momento opportuno la suasion del Quirinale sappia essere con i falchi del Pdl efficace quanto lo è stata ora con i dissidenti Pd.
Quanto a Letta, non può non sapere che questa vicenda ha incrinato il rapporto fra il suo governo e il suo partito: oggi al senato vedremo se e come proverà a rimediare. Napolitano è tornato non casualmente a citare il semestre italiano di presidenza Ue (seconda metà 2014), confermando per il governo una speranza di vita di almeno altri due anni.
La domanda è: il Pd può reggere due anni in queste condizioni? E questo a prescindere dalla presunta impazienza di Matteo Renzi: la sua posizione contro Alfano stavolta è stata quella di tutti, salvo che nella stretta finale alcuni si sono sentiti più vincolati di altri.
Una volta di più Renzi si conferma il più bravo e veloce a cogliere gli umori e a trovare le parole per raccontare una storia di cattiva politica, e il ruolo positivo che lui vi avrebbe svolto.
Ma è un po’ come fu per l’elezione del capo dello stato: Renzi ne esce bene, però nella gestione della vicenda in sé non ha ottenuto ciò che chiedeva, i suoi si sono mossi in parlamento in maniera inefficace, i rapporti con altri pezzi del partito potenziali alleati si sono deteriorati. La morale? Opposta all’idea dell’abbandono che sta circolando: se Renzi non riesce a prendersi il Pd, e a farlo girare anche a Roma come vuole lui, la sua avventura rimarrà fatalmente incompiuta.