Solo o no, uno al comando deve esserci
La citazione bersaniana di Guglielmo Epifani è risultata tempestiva. Il rinnovato affondo contro i partiti personali ha coinciso con l’ultima convulsione leghista, lo scontro Bossi-Maroni che mostra come possano ridursi forze che, pur dotate come la Lega di una vera identità, esasperano il ruolo del capo, dell’uomo-simbolo. Da quando Bersani dichiarò la fine dell’epoca della personalizzazione, sono arrivate conferme, smentite, altre conferme. Si è estinto il dipietrismo, è morto sul nascere il mito di Ingroia, si è ridimensionato il vendolismo, si è infranto il montismo. La Lega post-bossiana barcolla nella contraddizione fra il massimo del peso istituzionale (le tre regioni del Nord) e il minimo peso politico ed elettorale. Una storia irrisolta. Incombono tragedie shakespeariane.
La scommessa bersaniana è sembrata smentita dai risultati elettorali di Berlusconi e di Grillo. Nel primo caso, la mistica della rimonta (inesistente) è tornata a confondere idee e prospettive del Pdl: dall’eterno rinvio dell’individuazione di una exit strategy dal berlusconismo possono derivare solo guai per il centrodestra.
Quanto a M5S, è evidente che la Grillo-dipendenza contiene i germi della crisi possibile in ogni momento. Cinquestelle è condannata a uno stato di tensione nervosa permanente, mai placatasi da febbraio a oggi: lo showman può reggere un simile ritmo adrenalitico, un corpo collettivo no.
Nonostante i risultati elettorali, pare dunque confermata l’analisi sulla crisi dei partiti personali.
Nel Pd sbagliano, come è accaduto a Bersani, quando sovrappongono il rifiuto del partito personale al rifiuto del carisma, della leadership. Ora poi con l’aggravante di mischiare il tema a quello della riforma costituzionale, quando è evidente che il presidenzialismo non c’entra nulla: una figura forte di riferimento e guida è indispensabile con qualsiasi sistema, e del resto la stessa sinistra figure del genere l’ha sempre avute nell’età classica della Prima repubblica.
L’evocazione renziana di «un uomo solo al comando» non rende l’idea. Il fastidio nasce dal concetto di comando più che da quello di solo. Si tratta di parole. La sostanza rimane: la leadership è un requisito della democrazia, non la sua negazione. Un fattore di trasparenza di fronte ai cittadini. E per il Pd avviato a congresso rimane l’urgenza di dotarsi di un’autorità piena, con poteri e corrispondenti responsabilità.