Chi resterà dopo le elezioni
Oggi i toni di tutti i contendenti sono alti, minacciosi, alteri. Tutti fanno la faccia dell’arme, promettono sfracelli, intimidiscono gli avversari, chiamano a raccolta popoli. Ma fra una settimana, a quest’ora, che cosa sarà rimasto di questi eserciti schierati in battaglia?
Il problema della tenuta delle coalizioni e dei partiti dopo le elezioni l’ha sollevato, non per la prima volta, Bersani a Milano. Aveva sul palco, nello stesso momento, Prodi e Vendola, emblemi di una storia devastante: esaltare la saldezza del centrosinistra contrapponendolo a tutti gli altri poteva suonare provocatorio da parte del segretario del Pd, volendo anche un po’ autolesionista.
Invece quasi nessuno ha ripreso la frase di Bersani per ritorcegliela contro. E a ben pensarci, fra i tanti possibili argomenti di propaganda, nessuno usa contro il centrosinistra quello di recare dentro di sé un destino di nuove divisioni.
Il fatto è che su questo punto Bersani ha evidentemente ragione. La sinistra radicale rappresentata da Vendola è ferma sulle proprie convinzioni ma pienamente inserita nella logica della sfida di governo. Tant’è vero che non pochi, nel Pd e dentro Sel, coltivano per i mesi prossimi l’ipotesi di una riaggregazione. E anche gli altri potenziali fattori di divisione – Matteo Renzi sopra tutti – si sono dimostrati all’opposto fortemente coesivi.
Altrove non è così. Praticamente da nessun’altra parte.
La liquidità del progetto di Mario Monti autorizza a considerare i suoi futuri eletti civici come singole personalità, certo non come un partito. E già molto si sa sulle ipotesi differenziate fra Monti e Casini sullo scenario politico post-elettorale.
La lista Ingroia è a tempo per definizione: martedì prossimo sarà sciolta. Il Pdl sconfitto è destinato a tornare il formicaio impazzito che era fino a dicembre, con l’aggravante delle scissioni già avviate e dell’altissimo rischio di una catastrofica rottura con la Lega in caso di perdita della Lombardia.
Su M5S, poi, è stato lo stesso Beppe Grillo a mettere le mani avanti dicendosi sicuro di perdere, una volta in parlamento, almeno il 10 per cento degli eletti.
Se davvero lunedì avrà vinto Bersani, il problema principale non sarà la stabilità della sua maggioranza, più o meno allargata. Bensì l’impazzimento di tutto il resto del sistema politico.