Ora il PD è un po’ più autentico
Sarebbe enfatico ed eccessivo dire che in tre mesi il Pd è diventato un altro partito. Qualcosa di clamoroso però è stato realizzato, passando da un lungo periodo di attesa statica (ricordate: stare sotto l’albero ad aspettare che cada la mela) a una breve vorticosa stagione nella quale i democratici si sono gettati a dettare il passo e l’agenda politica, sottoponendosi a una serie ravvicinata di stress che restituiscono al 2013 un Pd molto diverso.
Da quando Bersani, pressato dalla concorrenza di Renzi, ha capito che troppe variabili si frapponevano nello scenario politico tra lui e palazzo Chigi, ha deciso di giocare all’attacco. L’esito finale è tutto da vedere, i risultati tattici sono evidenti nello stop alla crescita di Grillo, nel contrasto imbarazzante con i contorcimenti berlusconiani, nel riscoprirsi i democratici dotati di molti argomenti anche nei confronti di un evento imprevisto come la candidatura di Monti: le sue liste non sono neanche nate, ma già il modo di formarle appare superato rispetto all’helzapoppin delle primarie del Pd.
Come aveva promesso di fare, Bersani ha messo in moto un meccanismo che sta spostando vistosamente gli assetti interni del Pd, la sua immagine, ovviamente la sua futura rappresentanza parlamentare.
È un fenomeno molto positivo che però va capito nelle sue diverse conseguenze, non tutte facili e scontate da gestire.
Il Pd di questa fine d’anno somiglia molto di più al suo segretario. Allo stesso tempo è più a sinistra di prima ed è meno catalogabile secondo le tradizionali ripartizioni interne.
Come abbiamo scritto tante volte, l’irruzione di Matteo Renzi ha disfatto la logica delle appartenenze. Nel tracciare la mappa dei candidati eletti in queste primarie si segnalano i ragazzi e le ragazze che si identificano col sindaco di Firenze, poi i tanti emergenti – soprattutto giovani e donne – che nei vari territori hanno spesso superato (come si prevedeva) i parlamentari uscenti.
Ci sono i casi clamorosi e ci sono le ingiustizie (il meccanismo è stato impietoso con diversi ottimi deputati e senatori). Ci sono qua e là tracce evidenti di logiche d’apparato, con segretari provinciali e responsabili d’organizzazione che hanno colto l’irripetibile occasione della vita.
Ciò che è quasi impossibile ritrovare sono i confini interni della vecchia maggioranza del Pd. Per forza: erano confini ed equilibri artificiali. I gruppi parlamentari del 2008, e prima ancora quelli del 2006, erano composti a tavolino secondo logiche ricavate dalle vecchie correnti diessine e dai vecchi soci fondatori della Margherita. I pesi rispettivi erano presunti, oppure approssimativamente desunti dalle varie primarie svoltesi negli anni. Qualche variazione sul tema l’aveva introdotta a modo suo Veltroni col suo album di figurine (il cattolico, l’operaio, l’imprenditore, l’ambientalista, il romanziere, il gay, il generale, l’immigrato): pur sempre un artificio.
Da ieri, anche senza fare retorica sul milione di cittadini al voto, il gruppo dirigente intermedio del Pd somiglia di più alla realtà di questo partito, a ciò che il Pd è diventato, piaccia o no.
Allora è inutile stupirsi o addirittura recriminare se si vede uno spostamento a sinistra (questo è il mainstream del tempo). O se le varie famiglie ex popolari appaiono surclassate dagli ex diessini: non ci fossero state le quote blindate che hanno consentito la fondazione del partito, sarebbe successo molto prima. Casomai la riflessione andrebbe fatta sul perché – fino all’arrivo di Renzi – non si sia fatto abbastanza per mescolare le carte e far svanire le vecchie appartenenze: oggi ci sarebbero tanti mugugni in meno, ai quali si proverà a porre parziale rimedio nella composizione del listino bloccato.
Se non l’avessimo già annunciato in altre occasioni, potremmo dire che il vero Pd nasce oggi, e lo rifonda Bersani con la complicità del suo sfidante. È un po’ più “autentico” di quello di prima, con i conseguenti difetti.
Per esempio è troppo sbilanciato a sinistra, come già scrivono tanti osservatori soprattutto considerando i successi di Fassina a Roma o Civati in Brianza, in aggiunta all’alleanza stretta con Vendola?
In parte è vero. Ma è vero come lo era ai tempi del Pci, e non per passatismo ma perché alla fine la funzione nazionale dei due partiti e perfino la loro dimensione rischiano di somigliarsi.
Anche considerando le cose difficili che toccherà di fare nella prossima legislatura (per non parlare delle alleanze, dell’allargamento della maggioranza eccetera), Pier Luigi Bersani torna a essere il tipico dirigente riformista che si incarica di pilotare su una rotta centrale una nave che di suo avrebbe una sensibile inerzia a sinistra.
Con una differenza decisiva rispetto al passato del lento “rinnovamento nella continuità” e all’epoca della cooptazione. Che sia le primarie di novembre, che queste di fine d’anno, hanno definito uno standard irreversibile di contendibilità e scalabilità del Pd.
L’assetto attuale è probabilmente il migliore per presentarsi come la proposta più seria e innovativa sul mercato elettorale, battere la concorrenza e vincere il 24 febbraio. Ma i giochi politici, anche interni, si sono appena aperti.