Il PD e Monti

Il senatore Monti “sale in politica” con due obiettivi dichiarati. Il primo è chiudere definitivamente ogni spazio al minaccioso ritorno della demagogia berlusconiana: anche chi conosceva o intuiva le intime convinzioni del senatore a vita è rimasto sorpreso dalla durezza oltre i limiti del disprezzo con la quale Monti ha trattato il suo predecessore durante la conferenza stampa di Natale.
Il secondo obiettivo è imporre nella prossima legislatura la centralità dei temi “montiani”, che poi, a scorrere la relativa agenda, non sono niente di più e di diverso delle classiche posizioni liberaldemocratiche.
I due obiettivi sono talmente intrecciati che il Pd, chiamato a fare i conti con questa candidatura relativamente imprevista, non può trattarli separatamente.
La sinistra deve salutare con pieno favore il fatto che un leader credibile in Italia e all’estero si proponga di impedire il ritorno all’incantesimo berlusconiano. Non abbiamo chiesto per anni proprio questo, al pigro e corrivo establishment italiano?
Di più. La sinistra deve sperare che Monti assuma un profilo adeguato ad assolvere al compito al quale il Pd bersaniano ha rinunciato, e per il quale il centro di Casini e Montezemolo è palesemente insufficiente: bloccare il recupero dei delusi berlusconiani, “fermare” quegli elettori che il Cavaliere sta cercando di richiamare a sé.

Il secondo obiettivo dell’ex “premier super partes” è più difficile da condividere, perché si pone in deliberata (e sgradita) competizione con il Pd. Monti che diventa “partigiano”: per lui vuol dire uno status che si ridimensiona; per Bersani vuol dire un avversario del quale si sarebbe fatto volentieri a meno: la campagna ideale per i democratici era quella che vedeva solo loro contrapposti alla coppia populista composta da Berlusconi e Grillo, da trattare e presentare alla pari.
Non andrà così, ci sarà un quarto incomodo. Attenzione però a calibrare i toni nei suoi confronti.
Trattare Monti da Margaret Thatcher, come fa Camusso, non è solo ridicolo e antistorico. È gravemente controproducente, in teoria perfino per una Cgil riformista (purtroppo un ricordo lontano, ormai), sicuramente per il Pd.
Non c’è praticamente nulla del cosiddetto programma Monti che non sia entrato, nel tempo, nella cultura e nella prassi politica e di governo del centrosinistra italiano. Il Pd non è un incidente della storia ma la forma politica assunta da una sinistra moderna che si risolleva da una sconfitta epocale e senza appello aprendosi all’economia di mercato e accettando fino in fondo la disciplina dei conti pubblici.
Di questa storia è figlio Bersani, che solo nemici accecati e amici polverosi possono considerare un nipote di Togliatti. E infatti il segretario del Pd riconosce anche se stesso nel programma di Monti, avendo però la convinzione e il mandato elettorale di proporre alcune cose in più, in particolare nel campo dei diritti (di quelli civili, per esempio, Monti non parla affatto).
Alla fine siamo sempre allo stesso concetto, che ribadiamo da un anno: per meritarsi il governo dell’Italia, il Pd deve dimostrare di saper far meglio di Monti le cose che si sono cominciate a fare nel 2012, e che i democratici hanno sostenuto. Questa sarà la parte competitiva di un rapporto Pd-Monti caratterizzato in realtà soprattutto dalla comune avversione al ritorno della demagogia.
Il resto sono fantasie (la svolta verso quale sinistra neo-classista, inesistente in Europa?). Sono delusioni personali (da parte di coloro che abbandonano). Sono miserie (di coloro che festeggiano per gli abbandoni, e se ne dovranno pentire presto).

Stefano Menichini

Giornalista e scrittore, romano classe 1960, ha diretto fino al 2014 il quotidiano Europa, poi fino al 2020 l’ufficio stampa della Camera dei deputati. Su Twitter è @smenichini.