Neanche l’Unità torna all’IRI
A Europa stiamo seguendo con sincero interesse il dibattito avviato sull’Unità a seguito dell’intervista nella quale Susanna Camusso chiedeva che lo Stato acquisti quote delle aziende private in crisi, per accompagnarle nel risanamento tutelando l’occupazione. Caso emblamatico, l’Ilva, ma il leader della Cgil allargava il discorso a tutta l’industria.
Di tutte le prospettive che si spalancassero qualora il centrosinistra vincesse le elezioni, questa è quella più gravida di significato. Sarebbe (e infatti Camusso così la presenta) una storica inversione di tendenza dopo gli anni in cui tutti – a partire dai governi partecipati dalla sinistra – hanno convenuto sulla necessità di alleggerire la presenza pubblica nell’economia, puntando a ritirare lo Stato in funzione regolatrice.
Convinta delle buone ragioni di Camusso, da alcuni giorni l’Unità interpella docenti ed economisti di area per trovare sostegno alla tesi del rientro della mano pubblica nella proprietà di aziende manufatturiere.
La cosa più interessante – che merita di essere annotata da chi nutre timori per le conseguenze di una vittoria elettorale del centrosinistra – è che nessuno dei keynesiani interpellati dall’Unità accoglie la proposta Camusso. Sapelli, Berta, De Cecco, tutti ripiegano su una trincea che è diventata, alla fine, il vero oggetto del dibattito: che lo Stato recuperi iniziativa di investimento e d’impresa per promuovere settori industriali fortemente innovativi, lì dove i privati non possono o non hanno il coraggio di rischiare. Insomma: inversione di tendenza e politica industriale, sì; tornare al salvataggio delle aziende decotte e alla lottizzazione politica dei cda, no.
Non è una differenza da poco ed è già un discreto argine alla furia iconoclasta di chi, volendo «abbattere i tabù liberisti» e saltando a pie’ pari la degenerazione dei carrozzoni degli anni ’70 e ’80, sogna di tornare agli anni ruggenti della prima IRI.