Il problema dei liberali
Un grido di dolore s’è alzato il giorno di Ferragosto dalle colonne del Corriere della Sera. Va bene, dolore è troppo, non esageriamo: diciamo un grido di preoccupazione, una specie di richiesta d’aiuto da parte di una doppia pattuglia di liberali ardimentosi che si sono lanciati nel campo aperto della politica, per ritrovarsi però subito circondati da vecchi marpioni desiderosi di arruolarli in una specie di carovana elettorale piena di bandiere ma senza una guida riconosciuta.
Il cosiddetto “centro moderato” col quale Bersani vuole stringere il patto di legislatura (dopo aver vinto le elezioni insieme a Vendola) è in questo momento una specie di accampamento variopinto nel quale spicca una sola vera sigla di partito (ancorché disciolto più volte e da parecchio tempo: l’Udc) e una miriade di gruppi, aree, altre sigle gravemente ridimensionate (Fli, Api), personalità benedette dalla Cei, estensori di appelli e fondatori di fondazioni.
Mi scuso per l’ironia. Essa è benevola, perché questo incongruo e inquieto assembramento è accomunato da un obiettivo che qui si condivide: sostenere e alimentare lo spirito e la sostanza della botta riformista tentata da Mario Monti e solo molto parzialmente riuscita; e poi farne il centro dell’agenda politica anche della prossima legislatura, debellando definitivamente il convergente attentato populista dei nostalgici berlusconiani e degli eversori dipietristi e fattoidi.
La missione è impegnativa, per certi aspetti disperata nel paese delle consorterie, delle corporazioni e delle consociazioni. Oltre a pesare politicamente nello scacchiere parlamentare ci sarebbe, niente di meno, da sfidare e rovesciare uno spirito pubblico sempre incline al lassismo, alla furberia, alla violazione di regole piccole e grandi nell’economia, nel vivere civile, nella relazione fra stato e cittadino.
Ecco perché preoccupa che un obiettivo così ambizioso diventi il programma politico di un accampamento male organizzato e curiosamente abitato. Del resto è un po’ il senso di ciò che scrivono sul Corriere gli animatori delle due recenti iniziative liberali: che avrebbero voluto dar vita a una formazione politica popolare e drasticamente innovativa, invece si ritrovano arruolati nell’ennesimo packaging del Terzo polo di Casini.
Il problema di Nicola Rossi, Andrea Romano, Oscar Giannino e dei loro amici economisti è in gran parte di leadership. Alcuni di loro hanno creduto in Montezemolo, l’eterno esitante di cui s’è capito definitivamente che non ha il fisico per questo tipo di cose. Altri sono partiti alla carica senza nessuno in testa e ora non accettano di vedersi inquadrati sui giornali oggi con Casini, domani con Maroni e dopodomani con l’altra ex promessa mancata, Passera. Chiaro che questo limite è largamente responsabilità di coloro che ne soffrono. Una volta dei liberali si diceva almeno che fossero tanti generali senza popolo: se adesso (in attesa del popolo) non hanno neanche i generali, e perfino i colonnelli scarseggiano, non possono prendersela saragattianamente col destino cinico e baro.
Se dovesse emergere (cosa abbastanza probabile) che a forza di appelli sul Corriere non si vincono le elezioni e non si governa il paese, chi la pensa come Rossi e Giannino dovrebbe rifare i conti. E magari rivedere quel giudizio liquidatorio che vuole il primo partito italiano ormai consegnato senza speranza a una deriva vendoliana, perduto alla causa del riformismo liberale e utile al massimo come alleato (non si capirebbe neanche bene di chi, visto che il Pd come partito esiste, e questi suoi eventuali alleati non ancora). Sia chiaro, non stiamo “rivendendo” il Pd a chi ne conosce benissimo i limiti. L’esprit riformatore, che anche Bersani impersonifica bene e al quale ha dato ottima espressione nell’ultima intervista al Sole 24 Ore, deve fare i conti con nostalgie regressive, collateralismi paralizzanti e ora anche con una linea politica (Fassina-Orfini) esplicitamente anti-montiana, perfino coraggiosa ma a forte rischio di rivelarsi restauratrice di una inesistente belle époque della sinistra italiana.
È davvero chiusa la partita liberaldemocratica con il Pd e dentro al Pd? Nicola Rossi, per dirne uno, la considera chiusa ormai da anni, anche prima dell’avvento di Bersani. Nel Pd però si battono ancora in molti, anche loro senza riuscire ad andare oltre articoli e appelli sui giornali: colonnelli senza un generale, e quanto ai soldati chissà. C’è fra loro chi spera in Matteo Renzi, attualmente in tour presso gli stabilimenti balneari. Lui però non ama gli arruolamenti di gruppo, preferisce lo schema “chi mi ama mi segua anche se io non glielo chiedo neppure”: più che un leader una lepre, almeno per adesso.
Che cosa dovrebbe fare allora, chi non considera saggio il divorzio fra la cultura (e l’area politica) liberale e il partito che pare destinato a governare l’Italia? Quanto meno occorrerebbe obbligare le parti a ritenersi ingaggiate una con l’altra, non reciprocamente libere e disimpegnate. Per esempio, sarebbe importante se, oltre all’Uisp e alle associazioni del terzo settore, Bersani incontrasse nel suo giro di consultazioni anche altri soggetti un po’ meno prevedibili e abbordabili. E fra loro, perché no? i promotori di Italia Futura e dell’appello “Fermare il declino”, cioè quelli del grido di dolore ferragostano del Corriere della Sera: il confronto non sarebbe in lingua politichese come quelli con Casini, dunque forse più difficile ma anche più interessante per una persona pratica come l’ex ministro dell’industria di Prodi. E sarebbe istruttivo anche per gli appellanti, che nel dialogo diretto non potrebbero rifugiarsi in quelle facili formulette liquidatorie con le quali tanti commentatori sono abituati a disfarsi del “dossier Pd”.
Non ne uscirebbe nulla, in termini di schieramento politico, e sarebbe anche bene così. Ma circolerebbero idee. E non credo che ci sia qualcuno convinto che le proprie siano sufficienti a farci uscire dai guai.