La ritirata dei giornali
È impossibile e anche scorretto giudicare da fuori i termini di una vertenza in un altro giornale, soprattutto se si tratta di una testata, il Riformista, per alcuni aspetti simile a Europa, il giornale che dirigo. Nella sua crudezza va però sottolineata la frase d’apertura dell’editoriale di oggi di Emanuele Macaluso: «Le certezze sulla possibilità di continuare non vanno affermate solo in una conferenza stampa ma nel concreto, gestendo il giornale e quindi trovando i mezzi per pagare quotidianamente tipografia, carta, stipendi».
La verità di questa affermazione (da parte di un grande giornalista che è stato direttore dell’Unità in una fase storica importante) non sminuisce il valore dello sforzo generoso dei bravi giovani colleghi che vogliono salvare la testata. È semplicemente la constatazione di un fatto – anche i media devono fare i conti con la materialità della loro condizione – che talvolta viene sottovalutato da chi promuove imprese editoriali (soprattutto se si tratta della politica) e non solo da loro.
Il momento storico dice senza equivoco che la carta stampata non è alla fine, ma deve restringersi. Negli Usa le aziende che nella crisi hanno in assoluto perso di più sono gli editori di giornali; quelle che sono cresciute di più sono gli editori on line. La via è tracciata, sono i lettori che l’hanno scelta. Non conduce a una sostituzione ma impone a tutti (e tutti lo stanno facendo, ovunque) di riequilibrare investimenti e risorse. E anche di riequilibrare il sostegno pubblico a questo particolarissimo settore.
Con pazienza va contrastata la vulgata – un po’ liberista, un po’ qualunquista – sui giornali che meritano di morire se non possono vivere senza aiuti. Non c’è una sola democrazia occidentale nella quale l’editoria (tutta, anche quella che si vanta del contrario) non sia sostenuta dal pubblico, in ragione del suo ruolo specifico nella vita associata. Tra Iva ridotta o azzerata, proprietà statale dei network radiotelevisivi e contributi diretti e indiretti, l’Italia è addirittura in fondo alle classifiche internazionali.
Il problema, inserito nei sacrifici imposti a ogni settore, non è quindi se sostenere, ma come sostenere. Con quante risorse, con quanta maggiore trasparenza, con quale politica generale di sviluppo e riconversione. Il governo sta affrontando questi nodi. Imprese e sindacato li conoscono bene. L’urgenza è enorme: i casi Liberazione, Riformista, Manifesto, Padania sono la punta dell’iceberg della crisi delle testate più grandi.
Presto racconteremo come questa vicenda globale si traduca nella piccola specifica storia di Europa. Noi poi dobbiamo affrontarla con la difficoltà ulteriore nata dal caso Lusi, che tocca l’immagine della comunità politica che promosse l’impresa e intacca le sue basi materiali. Abbiamo già detto che le cose dovranno cambiare radicalmente: per rispetto dell’opinione pubblica – visto che le risorse vengono principalmente da lì – e per rispetto verso noi stessi e verso il nostro lavoro. Per oggi rimane l’urgenza della solidarietà ai colleghi in difficoltà impellente.
Le dimensioni planetarie della crisi non assolvono dagli specifici errori di gestione, però avvertono che nessuno si salva da solo. I piccoli soffrono di più, ma neanche nell’editoria vale l’illusione too big to fail.