Come la vedono i laburisti del Pd
Tra un anno di questi tempi saremo in campagna elettorale. Sarà la prima della Terza repubblica, dunque lascerà un imprinting. Non sappiamo con quale sistema si voterà, ma comunque il Pd sarà nel ruolo di front-runner e si candiderà a essere perno di una nuova coalizione di governo, sicuramente diversa dall’attuale. Di qui ad allora non si svolgerà naturalmente alcun congresso, ma è evidentemente aperta una discussione su quale Pd portare alla sua prima prova di maturità. Le tensioni interne di questi giorni sono l’antipasto, dall’estate si farà sul serio.
Giorni fa un democratico emergente come il presidente della Toscana, Enrico Rossi, ha esplicitato una delle opzioni sul terreno. È una proposta estrema dunque anche se Rossi rappresenta un pensiero diffuso in un’area geopolitica cruciale per il Pd, è impossibile attribuirla al segretario. Casomai potrebbe aiutare Bersani a presentarsi come garante di una posizione centrale, di equilibrio. È importante però segnalare la tendenza-Rossi, rappresentata nel gruppo dirigente nazionale da personalità ormai note: è uno dei poli della discussione, molto accreditato dal circuito mediatico.
Convinti che la contaminazione liberale degli anni Novanta sia stata per la sinistra italiana un gigantesco abbaglio, e matrigna della sua perdita di identità oltre che della generale crisi internazionale, questi dirigenti pensano sostanzialmente a ripercorrere all’indietro la strada fatta dalla sinistra a partire dal 1989. Non tanto per tornare al Pci – questo sarebbe stupido attribuirglielo – quanto a una nuova forma di unità delle sinistre attualmente disperse sotto un unico grande partito che metta «il lavoro prima di tutto» (titolo di un recente libro di Fassina), si proponga come sponda politica ai sindacati, recuperi tratti di identità più riconoscibili, fatalmente restituisca ad altri partiti i contenuti più marcatamente liberali e infine (si presume) si proponga come partner “di sinistra” a un rafforzato centro moderato.
Tanta gente nel Pd e intorno al Pd chiede una simile svolta. Vendola ha messo i piedi in questo piatto distinguendo fra le posizioni della maggioranza democratica nelle quali si riconosce e quelle «di Veltroni», che assimila a «una seconda destra, non sguaiata come quella di Bossi e Berlusconi bensì colta, con il loden». Torna, anni dopo, una teorizzazione di Bertinotti che lo stesso leader di Rifondazione aveva abbandonato: quella delle due destre entrambe da combattere. Allora per Bertinotti la “seconda destra” erano i riformisti (per questo, con Vendola, fece cadere Prodi). Oggi siamo alle distinzioni.
Chissà come finirebbe, se la posizione di Rossi (analoga a quella di Orfini e Fassina nella segreteria del partito) venisse sottoposta a un referendum o a una conta congressuale. Potrebbe anche vincere, poggiando sul generico diffuso “desiderio di sinistra”. Questo esito, senza enfatizzare né drammatizzare il concetto, sarebbe la fine del Pd come era stato pensato e come l’abbiamo conosciuto. E infatti questa cosa Enrico Rossi la dice esplicitamente e onestamente: la natura del Pd deve cambiare, anche a costo di scontentare e perfino di vedere andar via «qualche moderato e qualche blairiano». Lasciamo cadere l’auspicio alla scissione, mettiamo la battuta rivolta al Foglio nel novero delle gaffes, anche se nessuno da Roma ha chiesto a Rossi di rettificarla. La ricorderemo al momento opportuno. Il punto qui è solo storico-politico. Tornare sui propri passi non è vietato. Ci hanno fatto un pensiero (e lo fanno tuttora) anche molti che al Pd sono arrivati venendo da altre sponde e vi si trovano a disagio per motivi opposti a quelli di Rossi.
Entrambi i gruppi però dovrebbero riflettere sulle ragioni per cui quella strada è stata fatta. Su dove si trovavano loro, quando partì il processo che ha poi condotto alla nascita di questo Pd. Nel caso di Rossi, Fassina e Orfini, su quali motivi spinsero Fassino, D’Alema, Veltroni, Bersani e tanti altri a battersi per questo esito, e in nome di questo a perdere per strada tanto tempo fa Vendola (col quale oggi Rossi vorrebbe ritrovarsi, sulla base della comune teoria delle “due destre”) e poi tanti altri loro compagni che oggi sono intorno a Sel (il partito italiano, per inciso, a più alto tasso di leaderismo carismatico).
Sono nobili e importanti i luoghi di provenienza. Tutti di minoranza, però. Al momento di chiudere i battenti i Ds valevano il 17 per cento, ma anche nel loro momento migliore per governare avevano dovuto delegare a tecnici come Prodi e Ciampi (l’ha ricordato recentemente Bersani). Il trend di restringimento politico e demografico della costituency del lavoro dipendente sindacalizzato fu giudicato allora inarrestabile e spinse su nuove strade. Oggi Fassina ripropone quella centralità, accompagnata dal patto dei produttori che era già nelle carte del Pci quarant’anni fa. Si aprirebbe qui un discorso che meriterà di fare, se non altro sulla circostanza che nel frattempo la globalizzazione ha regalato, oltre a tanti guai, anche un’incancellabile autopercezione dell’individuo molto oltre la dimensione lavorativa. Spesso, anzi, preferibilmente fuori dalla dimensione lavorativa.
Ma per restare alla politica più banale, Bersani farà bene a tenere a bada questa linea estrema del Pd per il semplice motivo che è la peggior nemica delle ambizioni democratiche di tornare a far valere il primato della politica, e in esso il suo primato di partito. La svolta neolaburista, in una società frammentata come quella italiana, è il regalo più grande che dal Pd possono attendersi proprio coloro che nella segreteria bersaniana sono oggi guardati con maggior sospetto, da Passera in giù. Che la nuova coalizione di governo nasca prima del voto davanti agli elettori o dopo (come consentirebbe il sistema tedesco), il suo baricentro sarebbe fatalmente fuori da un simile Pd. “Murato” al centro per sua stessa scelta, e certo non pacificato a sinistra: la giornata di rivolta di ieri degli anti-Tav, comprese le contestazioni a Bersani, dovrebbe suggerire qualcosa sulla praticabilità della ricomposizione delle sinistre.