L’assillo di Bersani
Bersani si presenta sicuro di sé su un paio di questioni cruciali, ed è importante.
Innanzi tutto sulla difesa delle primarie, che non nega come problema ma neanche rinnega come elemento fondante della “diversità” democratica. È un sollievo: dopo Genova si poteva temere che qualcuno al Nazareno volesse farla finita con uno strumento per definizione incontrollabile. Bersani preferisce andare avanti senza rete, e in vista di Palermo (dove si ripeterà la storia di un Pd che lavora conto terzi) ribadisce la linea della primavera scorsa, cioè del partito impegnato in un progetto nazionale e non a cercare successi per sé.
Secondo punto di tenuta: la resistenza all’ondata antipolitica. Lesionato nell’immagine da vicende interne o vicine, il Pd si impegna nell’autoriforma del sistema (che però non può fare da solo) e rivendica la necessità di un trasparente finanziamento pubblico, pena il cedimento a un regime nel quale la vita pubblica è regolata per via censitaria.
In Bersani si avverte però un assillo ricorrente. È il corollario negativo di un fatto positivo, cioè il successo di Monti. Partito fra molte freddezze, il governo macina consenso nel centrosinistra. Le ultime due mosse – il no alle Olimpiadi di Alemanno e il nuovo regime fiscale dei beni della Chiesa – hanno colpito nel profondo: decisioni che denotano indipendenza di giudizio, più di quella che in circostanze simili poterono permettersi anche governanti e amministratori progressisti.
Quando Bersani promette che «anche dopo Monti» l’Italia avrà un governo fondato sulla competenza, senza bilancini partitici, rende omaggio all’esperienza attuale e riconosce gli errori del passato, soprattutto unionista. Ma fino a che punto può anche dare garanzie per il futuro? Smentire l’impressione che nessun partito, neanche il Pd, potrà formare un esecutivo altrettanto forte? Disinnescare eventuali operazioni di sostanziale prorogatio tecnica che potrebbero muovere proprio da questa sensazione diffusa, a danno della legittima candidatura del Pd a governare in prima persona?
Una volta tanto, senza eccedere, un po’ di pensiero politico può aiutare a rispondere a queste domande più del pragmatismo quotidiano. E soprattutto più della pretesa ben sintetizzata da Massimo D’Alema: «La politica intesa come ceto che rivendica di tornare alla gestione del potere dopo la parentesi del governo tecnico sarebbe perdente o subalterna».
Per dirla brutalmente: bisogna meritarlo, il ritorno al potere. Ed è (per fortuna) più difficile di ieri: finché il benchmark col quale confrontarsi era lo sdrucito asse Bossi-Berlusconi, si poteva concepire la riconquista del governo come una mela la cui caduta attendere a pie’ fermo alla base dell’albero. Ora la pietra di paragone è diversa. Tocca far meglio.
Se n’è parlato ieri in una iniziativa dell’associazione di Enrico Letta, 360, con Miguel Gotor. Se ne parlerà oggi in una giornata organizzata da Gianni Cuperlo, alla presenza di tutto l’establishment democratico, politici e intellettuali. Sicuramente tutti concordano con Gotor, che ieri ha avvertito sull’unico errore da non commettere: riportare il Pd “in alto a sinistra”, dove stava magnifico e isolato il Pci. Se il nuovismo ha fallito e stancato, la nostalgia per la forma partito e le politiche della sinistra come le abbiamo conosciute sarebbero colossale regalo a una nuova saldatura tra la destra e il moderatismo nazionale, da sempre maggioritario.
Non avendo mai davvero sperimentato i danni del neoliberismo, possiamo elaborare un pensiero per l’Italia che inietti politiche attive dello stato dentro l’indispensabile rivoluzione liberale che Monti sta appena avviando. Bersani potrà mantenere la sua promessa di «fare meglio» solo se si smetterà di considerare questi mesi come una parentesi (dopo aver accettato Monti più che altro come la leva per liberarsi di Berlusconi), e si presenterà il Pd come il partito legittimato a dare a quest’opera la necessaria base di consenso democratico e una leadership investita dagli elettori.