Il fallimento della dottrina Alemanno
Oggi – con la manifestazione della comunità cinese di Roma – si celebra il vero, profondo fallimento di Gianni Alemanno sindaco, e di molti altri politici, amministratori e governanti che come lui hanno provato a cavalcare con disinvoltura la tigre dell’insicurezza metropolitana sul crinale delle reciproche diffidenze etniche. Il giudizio di fallimento non si basa sull’utopia che le comunità nelle metropoli occidentali siano destinate a convivere felicemente, e che i sindaci dovrebbero accompagnare questo processo virtuoso invece di strumentalizzare la paura. Non si tratta di questo, bensì del suo esatto opposto.
Da ciò che si comincia a capire sul contesto della rapina di Tor Pignattara (Carlo Bonini su Repubblica) emerge uno spaccato di città sommersa che ridicolizza le semplificazioni basate sulla coppia italiani versus immigrati, riproposte dai manifesti affissi dal Pdl sui «romani che hanno perso la pazienza» (con il governo, nelle loro intenzioni, non con il sindaco).
In realtà la metropoli è il luogo in cui prospera una rete di commercio al nero, scorre denaro invisibile, i cinesi si stringono in una rete chiusa che mette in conto le aggressioni da parte dei maghrebini, e tutti insieme vittime e predatori non considerano l’autorità della legge e non prevedono di ricorrervi. Indignazione e protesta di questi giorni sono sacrosante ma sono solo il livello emerso della realtà: emerso solamente per l’atrocità insopportabile dell’omicidio.
Non so se ci rendiamo conto di quanto sia complicato un quadro di convivenza del genere, e di quale competenza e attenzione ci sia bisogno anche solo per comprenderlo, figurarsi per governarlo. Qui è il fallimento della dottrina Alemanno, ammesso che si possa chiamare così la promessa del 2008: «Espelleremo trentamila irregolari». Qui è la inadeguatezza, oltre alla irresponsabilità, sua e degli imprenditori della paura come è stato lui. Nani, arrivati per caso a governare città con problemi da giganti.