La CGIL contro il governo
C’è una pressione fortissima su Pier Luigi Bersani. Interna ed esterna al Pd. Viene da un vasto mondo che ha forse equivocato sia sulla profondità della crisi che sulle implicazioni della scelta per il governo Monti che, infine, su quanto lo stesso premier aveva detto dal primo minuto del proprio incarico.
Oppure ha voluto equivocare: un po’ come tanti berlusconiani dall’altra parte dello schieramento politico, c’è forse nel Pd chi pensava che Monti si sarebbe prestato a fare soltanto il lavoro sporco, la manovra dei sacrifici sulla quale nessuno voleva mettere la faccia, il salasso per tenerci in Europa col volto presentabile del Professore invece che con quello invendibile del Cavaliere.
Non è così perché il governo (come Monti aveva detto fin dall’inizio) s’è dato un programma che va oltre il pronto intervento della manovra. Ritiene che l’urgenza non consista solo nel ritrovare una breve credibilità sui mercati, ma in un’operazione più ampia: aggredire tre, quattro, cinque nodi fin qui risultati inestricabili della crisi profonda del paese. Provare – certo, forti dello spiazzamento dei partiti (non della politica: dei partiti) – a rimediare agli errori e alle inadeguatezze di una classe dirigente che ha fallito nel suo insieme: politici, imprese, sindacati, finanza, giornalisti, professioni, alta burocrazia.
Ora che, fatta la manovra, Monti e i suoi ministri si avvicinano a questi nodi, quella che era un’inquietudine diventa ansia. E molti nel centrosinistra si rivolgono verso Bersani.
La domanda – più o meno esplicita – è: ferma il governo. A ogni costo, anche a costo di farlo cadere e di tornare sulla via delle elezioni.
È la linea di Susanna Camusso, espressa in modo aggressivo in una drammatica intervista contro Elsa Fornero. È la linea di una parte di mondo sindacale, e di almeno alcuni dei dirigenti democratici che vi fanno riferimento più o meno diretto.
È la linea dell’Unità, che prima non credeva al governo di transizione e anzi lo avversava, poi lo ha accettato malvolentieri, oggi passa all’opposizione.
Al governo non ci si limita a contestare l’intenzione di intervenire sul mercato del lavoro: al governo si contesta la legittimità a governare. Si va molto oltre la rivendicazione della sacrosanta dialettica tra esecutivo, parlamento, parti sociali: si sostiene che il governo dei tecnici, non avendo investitura popolare, non può intervenire sul mercato del lavoro, e non avrebbe potuto farlo neanche sulle pensioni.
«C’è un tratto autoritario nel voler dire che il governo sarà il grande riformatore del paese, perché questo spetta alla politica», dice Camusso al Corriere della Sera. Poco prima ha accusato Elsa Fornero di operare per favorire le assicurazioni private ed è arrivata a criticarla “come donna” per la sua pretesa «aggressione nei confronti delle lavoratrici». Parole pesanti come pietre, preannuncio non di un dialogo difficile ma di una scomunica. Svelamento probabilmente di un problema della stessa Cgil.
Se la linea della confederazione fosse quella del Pd, il governo e la legislatura finirebbero oggi stesso. Oppure finirebbero – come sostanzialmente ha suggerito sull’Unità Claudio Sardo – dopo aver tentato l’approvazione della riforma elettorale, considerata l’unico motivo per tenere Monti in sella ancora per pochi mesi. Questo sentimento esiste nel Pd. Ma non è la linea del Pd. Bersani ha già subito queste pressioni e le ha respinte. Ha già messo in chiaro che con Monti si va fino al 2013, sapendo che questo comporta passaggi non facili viste le intenzioni di intervento sul mercato del lavoro dichiarate pubblicamente dal premier.
Elsa Fornero aveva definito l’articolo 18 sulla licenziabilità un totem, dichiarando di volerlo mettere in discussione. Il tipo di reazione ha confermato l’assunto: l’articolo 18 è davvero un totem. Bersani lo sa, e ha cominciato per primo a liberarlo di questo rivestimento sacrale con un’osservazione di buon senso sul fatto che si tratta di una tutela applicata solo in una parte minoritaria del mercato del lavoro: che può voler dire «dunque è inutile toccarlo», oppure può voler dire «ci sono cose più incisive da fare, ragioniamo su tutto». Questa già è politica, non siamo più alla religione.
Rompere con la Cgil è l’ultima cosa che un segretario come Bersani vorrà fare, a parte che sarebbe una follia da parte di chiunque in questo momento. La tattica più saggia è allora lavorare sull’agenda delle riforme, dando priorità agli interventi sulle liberalizzazioni (urgentissimi e già quasi pronti, almeno a sentire altri ministri come Passera e Barca) mentre si apparecchia il tavolo della concertazione sul mercato del lavoro. Nessuno si illude che questo possa distrarre o placare Camusso, però si determinerebbe così il contesto di un intervento complessivo sulla crescita al quale sarebbe difficile sottrarsi.
Questo pare il senso del commento di ieri del segretario del Pd: prendere tempo, costruire un ambiente politico diverso da quello terribile offerto dall’intervista della leader della Cgil.
Si capisce che, proprio perché i partiti non sono in condizione di imporsi al governo Monti (oppure non sono sulla scena, come la cosiddetta sinistra-sinistra), i sindacati pensano di dover supplire a questo deficit di sponda con un surplus di conflittualità e di protagonismo tipicamente politico. Lo fa Bonanni, che non può più andare a trovare Maurizio Sacconi. Lo fa soprattutto Camusso, che si muove ormai più come un partito che come un sindacato dando giudizi di carattere generale che la mettono se non in opposizione quanto meno in competizione col Pd. Monti deve togliere loro ogni alibi e costringerli a una discussione serrata, con contropartite ma anche tempi e risultati certi.
L’operazione sarebbe poi completa se sul tavolo finissero davvero anche nuove figure di welfare come il reddito minimo. Monti e i suoi ministri hanno pronunciato impegnative parole di speranza per i giovani, hanno detto di voler cambiare per loro. Ora loro devono dimostrare che le risorse rastrellate dappertutto servivano davvero allo scopo di sostenere questo mondo «sprecato» e abbandonato.
A Susanna Camusso è sembrato addirittura offensivo che Elsa Fornero si proponesse di «riformare il ciclo di vita». L’espressione del ministro sarà stata enfatica, ma rende bene l’idea di ciò di cui c’è bisogno per il welfare italiano. Di ciò di cui nessun partito, e assolutamente nessun sindacato, s’è mai fatto carico. Può darsi che Fornero e Monti falliscano nel tentativo, anzi probabilmente andrà così visto il sostegno non convinto che ricevono e l’avversione apodittica che suscitano: ma nessuno ne potrà godere, altre generazioni ne pagheranno il conto, e un’altra classe dirigente politica e sindacale passerà alla storia senza meritare gratitudine.