Che cosa c’è dietro il caso Fassina
Con la richiesta di dimissioni di Stefano Fassina avanzata dal gruppo di Enzo Bianco, una importante questione politica viene ora trattata da questione personale, rendendone più facile la neutralizzazione. Bersani non può prendere in considerazione l’attacco al responsabile economico del partito, per di più non condiviso neanche da tutta l’attuale minoranza.
In un certo senso era stato lo stesso Fassina, giorni fa, a sfidare i malumori dicendo che avrebbe risposto solo a chi gli avesse chiesto apertamente di lasciare l’incarico: orgogliosa e giusta rivendicazione. E se non altro Enzo Bianco questo ha fatto: ha avanzato un’esplicita dichiarazione di sfiducia, motivata con la insostenibilità della linea di Fassina a fronte del mutato quadro politico e del sostegno al governo Monti. La richiesta di dimissioni non andrà avanti. Meglio per Fassina e per l’unità del Pd, e meglio anche per un altro motivo: perfino se la sfiducia fosse stata accolta, non avrebbe toccato il nodo politico sovrastante, che è ben più corposo.
Fassina è il titolare di una linea di politica economica certificata diversi mesi fa da alcune assise di partito e assunta dal segretario. A prescindere da quello che è accaduto nel frattempo nel mondo (ovvero: di tutto), Fassina ha stiracchiato parecchio quella linea e si è esposto spesso e generosamente, su molti temi, con posizioni rispettabili ma destinate a essere travolte dai fatti. Mettendone in fila alcune: la liquidazione delle politiche proposte da Bce e Ue come mera aggressione neoliberista al nostro modello sociale; l’adesione alle manifestazioni Fiom contro la revisione del modello contrattuale; l’avversione alla norma sul pareggio di bilancio nella Costituzione; l’opposizione alla patrimoniale e perfino alla reintroduzione dell’Ici; la resistenza a qualsiasi revisione del sistema previdenziale; da ultimo, la presa di distanza da Monti fino ad auspicarne la caduta entro pochi mesi per votare nella primavera 2012. Alcune di queste posizioni sono state poi corrette dall’interessato (come quelle sul fisco), altre no anche se appaiono ormai superate dagli eventi.
Il problema non è Fassina, che dà voce a quella componente della maggioranza bersaniana che non ha mai accettato l’idea di un Pd partito di centrosinistra e non solo di sinistra. Il problema, più generale, è quanto danno faccia al Pd il presentarsi come rimorchio recalcitrante di una fase che, se porterà qualcosa di buono, lascerà qualcuna delle riforme liberali che in Italia non ci sono mai state (se non ai tempi della terza via prodiana) e delle quali c’è tanto bisogno.
Fassina dovrebbe fare proprio il timore espresso giorni fa da D’Alema: se non ci candidiamo come Pd alla leadership della stagione che si apre, altri poi ne coglieranno i frutti. Se non saremo in grado di proporci come i più legittimi continuatori del tentativo riformista promosso dal presidente del consiglio e dal capo dello stato, potremo al massimo aspirare al ruolo di portatori d’acqua. Portatori d’acqua. Questo è il destino, minoritario, al quale si autocondanna chi si attesta su una estremità delle possibili opzioni progressiste, liquidando altezzosamente un decennio di ricerca di allargamento culturale ed elettorale (appunto, la Terza via) come vile resa al neoliberismo.
Coerentemente col disegno originario di andare presto al voto con Di Pietro e Vendola, questa linea assegna al Pd, nel mutato scenario, solo la parte di contrappeso di sinistra alle scelte di Monti. Ma questo è quello che farà la Cgil. Il Pd non può perdere l’irripetibile opportunità di rivolgersi con proposte adeguate a tutta la società italiana, compreso il confuso elettorato in fuga dal centrodestra, per collocarsi nel luogo dell’egemonia: al centro. Non nel senso politico-geometrico della parola, ma nel senso di grande corpo centrale del paese, la pancia e il cuore dell’Italia.
Per fortunata coincidenza, proprio sabato a Monza il Pd si rivolgerà a una parte di questo centro d’Italia: i lavoratori autonomi, individuali, le micro imprese. Parleranno a Monza sia Bersani che Fassina ed Enrico Letta: sarà interessante ascoltarli.
C’è poi il tema della cultura politica che emerge in questi frangenti. Prima che qualcuno chiedesse di far fuori lui, Fassina aveva già fatto fuori gente del calibro di Nicola Rossi e Pietro Ichino, liquidandone le idee come “estranee” alle deliberazioni del partito. Approccio burocratico, non rispettoso delle persone e delle biografie, evocativo di altre stagioni di centralismo democratico, e anche imprudente nei tempi moderni, che sono caratterizzati da rapidi mutamenti di orientamenti e anche di maggioranze all’interno dello stesso partito.
Proprio perché occorre superare questa cultura della marginalizzazione, ieri è apparso un errore l’attacco contro un dirigente, sapendo per di più che le sue idee non saranno forse maggioritarie nel Pd ma in questo momento lo condizionano, aiutate da una lettura della crisi sociale ed economica che fa apparire la rivoluzione liberale come un lusso che non possiamo permetterci, e che traduce in inaccettabili eresie di destra concetti cruciali come competizione, merito, rischio, mobilità sociale.
È di più ampio respiro la battaglia da aprire nel Pd, per convincere e per conquistarne le coscienze, più che le posizioni di vertice. Il consenso fortissimo verso Napolitano, Monti e verso il loro programma dovrebbe essere la bussola di questo scontro politico, ma non il paravento dietro al quale muoversi: Bersani agisce, sceglie i suoi dirigenti, le fa giuste o sbagliate, si corregge o prevale, comunque sulla base di un mandato democratico. Se si vorrà far evolvere il Pd in una direzione più liberal certo i prossimi mesi offriranno tante opportunità, ma è il consenso interno che bisogna innanzi tutto sudarsi. Come fece quel tale, l’esecrato Tony Blair, tuttora l’unico leader di sinistra che abbia governato una democrazia occidentale per dieci anni ininterrotti.