Ci vuole più movimento
Lorenzo Delrio alla fine è stato eletto presidente dell’Anci. Sergio Mattarella dopo una giornata di tensione è comunque entrato alla Corte costituzionale nonostante varie operazioni di disturbo. I referendum elettorali, sulle ali di oltre un milione di firme, hanno scardinato il sistema politico bloccato. E, guardando più indietro: Giuliano Pisapia dopo i voti sta conquistando anche il cuore dei milanesi, mentre Napoli non è più la capitale dell’avanzata berlusconiana ma casomai la prima tappa della sua ritirata. Tante vicende diverse, di varia importanza, che vedono alla fine il Pd conquistare posizioni e segnano in generale l’erosione del centrodestra in favore del centrosinistra.
Ma a quale prezzo per i democratici? Perché tutto accade con tanta fatica, tante torsioni interne, tante correzioni di rotta, consegnando l’impressione generale di un partito che avanza (e si candida a governare) quasi nonostante se stesso, con evidenti conseguenze su una percentuale elettorale che non migliora come dovrebbe? A ben vedere, tutte queste vicende hanno qualcosa in comune: la difficoltà e perfino l’impossibilità di governarle dal centro del partito.
Ormai, al terzo segretario che si ritrova nella medesima situazione, dovremmo aver capito che non è solo una questione di persone al comando. Bersani ha compiuto errori, li ha anche riconosciuti (non sempre), ha la tendenza a tenere rigidamente la rotta anche quando si rivela sbagliata, salvo poi virare per la forza dei venti. Ma non può essere considerato lui il problema: sarebbe perfino troppo facile.
Il problema è casomai che proprio con l’elezione di Bersani si è accreditata l’illusione che si potesse tornare al bel tempo antico, quando le decisioni della segreteria del partito si imponevano bene o male a tutti i gangli periferici, ai gruppi parlamentari, alle organizzazioni collaterali, a tutto il gruppo dirigente ristretto o allargato. Insomma, il ritorno a un principio di autorità dopo la genesi confusa e anarchica, grazie alla solidità dell’uomo Bersani dotato di una ampia maggioranza dopo la direzione un po’ solipsistica di Veltroni.
Non funziona così. Non può più funzionare così, per quanto sia condivisibile anzi vitale l’esigenza di un ritorno al principio di autorità. E Bersani è il primo a saperlo, perché il senso del limite è una delle sue virtù e nei suoi ragionamenti non manca mai il riferimento a un partito che si offre strumento, si affianca e non guida. Incidenti ed errori – e le conseguenti brutte figure – nascono allora dall’incongruenza fra le nuove regole del gioco democratico e l’ansia di dominarle con atti di volontà. È questo costume di vita e d’azione anche politica frammentato, magari individualista o corporativo, che puntualmente si prende la rivincita sulla nostalgia del punto di vista unificante.
I milanesi e i napoletani scelgono il proprio sindaco contro ogni indicazione, e i sindaci a loro volta scelgono il proprio presidente secondo le dinamiche della loro associazione. I militanti rovesciano l’orientamento del partito sulla legge elettorale, mentre i gruppi parlamentari – straordinari nella tenuta d’opposizione, nonostante certe astruse statistiche – si spezzettano non appena devono compiere scelte proprie e non ostacolare quelle altrui.
In questo panorama confuso c’è chi sa muoversi meglio di altri. È anche questa la fortuna di Matteo Renzi, alla cui politica di movimento (talvolta oscura quanto a finalità ultime, ammesso che ce ne siano) si replica con la rigidità degli statuti, delle scadenze di partito canoniche, delle candidature di segreteria: ogni volta un regalo per lui, che deve solo cavalcare l’onda della voglia diffusa di smentire il centro qualsiasi cosa il centro chieda di fare. Certo sarebbe una tragedia un partito fatto tutto di Matteo Renzi, però questo rischia di essere il destino del Pd se passa l’idea che la trasgressione sia l’unico modo di imporsi: bella beffa per chi puntava tutto sul ripristino della disciplina. Nessuno saprebbe più mettere ordine tra feudi e correnti, ci siamo già passati.
Non esiste una soluzione facile a questo problema. Certo non è organizzativa (lo diciamo perché sono di tipo organizzativo alcuni prossimi appuntamenti del Pd). Ovviamente è di linea politica e di leadership. Probabilmente Bersani dovrebbe moderare alcuni impulsi da centralismo democratico che talvolta si affacciano intorno a lui, in verità più pittoreschi che impressionanti, ma questo è un fenomeno marginale. Peraltro il pluralismo nel gruppo dirigente, maggioranza e minoranza, è sempre stato rispettato.
La questione è proprio di linea, e da questo punto di vista coincidono i problemi di fatica nel controllo interno e il disorientamento verso un quadro politico in rapida evoluzione, con l’affacciarsi di nuovi soggetti potenzialmente competitivi.
Bersani dovrebbe capovolgere la propria dottrina. Ci vuole più movimento. Più agilità. Capacità di sorprendere invece che essere sorpresi. Costringere gli altri a misurarsi con un Pd che gioca a tutto campo, aggiorna la propria proposta, scarta rispetto alla prevedibilità, si rivolge a quell’Italia dinamica e moderna ma non istintivamente progressista che si sta guardando intorno: oltre il 30 per cento di indecisi sul voto, una grande area del paese che le analisi post-elettorali del 2008 descrivevano come orientata al centrodestra ma senza passione e con fedeltà debole. Un’Italia alla quale le “lodi alla Camusso” dell’Unità, rispettabilissime, suonano remote ed estranee, antiche. Sapete quanti di costoro hanno sottoscritto il referendum di Parisi? Tanti. Sono stati agganciati da una iniziativa di movimento nata nel Pd anche se il Pd a Roma non la voleva: come li si trattiene? Come si rafforza questo provvisorio legame? Non sarà la panacea, una simile eventuale svolta, non placherà protagonismi e individualismi. Ma metterà finalmente sotto i riflettori il Pd nel suo insieme, cavallo trainante e non a rimorchio del cambio di stagione. Non c’è niente da fare, tocca ricordarlo: come fu nei primi mesi della sua ancor giovane esistenza.