Milano è la torta
Quella lanciata da Giorgio Napolitano contro i disgustosi manifesti del candidato della Moratti è una sassata dura, precisa, micidiale. Stefania Craxi che invita Berlusconi a ritirarsi invece è un mattoncino che si sbriciola: non sarà molto, però corrisponde a una delle pietre angolari del berlusconismo milanese (e c’è una nemesi storica terribile nel fatto che la prima a reagire contro la figlia di Bettino sia stata la nipote di Benito Mussolini). Nicole Minetti che si chiama fuori dal fronte processuale allestito da Ghedini, infine, è una pietra tirata per aria nel processo Ruby: per ora non si sa quanto potrebbe essere pesante e dove potrebbe cadere, però gli avvocati di Berlusconi scrutano a testa in su, preoccupati.
Letizia Moratti non aveva certo bisogno di queste tegole per inquietarsi. La sua multimilionaria campagna elettorale era già abbastanza difficile: un clima di freddezza intorno al sindaco uscente, giudizi sull’amministrazione oscillanti fra il pessimo e il negativo, la Lega con un piede dentro e uno fuori dalla coalizione (come dimostrano i cinquanta comuni lombardi dove il Carroccio ha già mollato l’alleanza con il Pdl). La somma fra le insufficienze del sindaco e i colpi diretti a Berlusconi nel cuore della sua capitale fanno capire quanto sia grave per il Pdl l’emergenza Milano. La risposta non potrà essere che la replica, ogni giorno, dello schema adottato nell’ultimo fine settimana ambrosiano del presidente del consiglio: di nuovo, Berlusconi ha deciso di trasformare una elezione locale in un referendum su di sé.
Diciamoci subito: ci riuscirà. L’ansia di Giuliano Pisapia e del centrosinistra milanese di mantenere la campagna nell’alveo civico è sacrosanta, perché è lì che stanno battendo la Moratti ed è lì che vogliono rimanere. Ma l’esperienza insegna che ogni tentativo di sottrarsi ai ciclici referendum berlusconiani è stato vano e alla fine controproducente. È lunga la lista dei candidati progressisti nazionali e locali che hanno cercato di sottrarsi ai blitz di Berlusconi sulle elezioni: va da Veltroni a Rutelli, da Soru a tutti i predecessori di Pisapia. Non ce l’hanno mai fatta, e alla fine sono sembrati più che altro timorosi di confrontarsi col Cavaliere (Rutelli fece parziale eccezione: voleva rifiutare l’agenda dell’avversario, mentre Berlusconi voleva rifiutare i duelli tv. Berlusconi riuscì nell’intento, Rutelli no).
Se le cose stanno così, è improbabile che Milano 2011, con l’angoscia di perdere che attanaglia il campo di Letizia Moratti, vada diversamente. Berlusconi dunque avrà il suo plebiscito. Il problema allora è: come farglielo perdere; come usare contro di lui i fallimenti della Moratti, e contro la Moratti il devastante crollo di popolarità di chi l’ha insediata a palazzo Marino. È un’operazione che richiede gioco di squadra.
Certo, tenere fermo il ruolo protagonista e vincente di Giuliano Pisapia. Ma anche spendere a Milano (non solo metaforicamente: Europa lanciò per prima l’appello fondi) tutto il meglio che il Pd nazionale può mettere in campo. Lo chiedeva ieri Pippo Civati, merita di ascoltarlo. La chiave non dev’essere «facciamo cadere Berlusconi a Milano», perché questo sarebbe il rovescio dell’operazione del premier e ne ricompatterebbe il campo. La chiave, positiva, potrebbe essere «Milano, il primo luogo dove mostrare che cosa sapremo fare senza Berlusconi». Bisogna però dare l’idea di crederci, e di tenerci molto. Non saranno stati contenti, i milanesi, di leggere che per Beppe Fioroni «vincere Milano sarebbe solo la ciliegina sulla torta». Milano è la torta. È, insieme, la brutta Italia di questi diciassette anni, e l’Italia migliore di cui tanto parliamo.
PS. Annotazione finale, che forse non c’entra ma forse sì. Non vogliamo impicciarci nel mestiere altrui, del resto dare consigli non richiesti è la nostra specialità. Nel contesto appena descritto, viene spontaneo chiedersi se non sia il caso di sospendere le ostilità striscianti fra il Pd nazionale e il Corriere della Sera. Al Nazareno – l’abbiamo già notato – si soffre una generale sindrome da persecuzione a mezzo stampa della quale sarebbe meglio liberarsi, se non altro perché (esperienza insegna) mostrarsi vulnerabili può solo aggravare le eventuali ingiustizie mediatiche.
Si sa che gli editorialisti di via Solferino perdono talvolta lucidità per eccesso di zelo terzista, chiamando in causa il Pd quando non c’entra o ignorandolo quando dovrebbe entrarci. In un recente scambio epistolare coi dirigenti dem, de Bortoli è stato insolitamente acido e liquidatorio, antipatico senza motivi apparenti. Ora sarebbe il caso di lavorare per chiudere l’incidente senza cedevolezza né vittimismo, mostrando il dovuto rispetto per sé ma anche per la libertà di stampa e di critica. Già D’Alema provò a sostenere un lungo embargo al Corriere: non fu una linea vincente. Non lo è mai, ci rimette sempre una parte sola. Indovinate quale.