Un po’ meglio
Si gira tanto intorno ai personalismi, alle alchimie dei gruppi dirigenti, alle faide fra correnti. Alla fine, talvolta, le cose sono più semplici: come scriveva ieri Michele Salvati sul Corriere, nel Pd c’è adesso – più chiara di prima – una linea liberaldemocratica, non neoliberista, che si offre all’intero partito come proposta più efficace per tornare a conquistare consensi perduti o mai conquistati.
Questo è il senso, essiccato, del Lingotto due. Un evento che, in accoppiata con le primarie, sembra aver restituito al Pd centralità nello scontro e nel dibattito politico. Non senza problemi, naturalmente.
Il primo problema è Napoli, nel senso che il controverso esito delle primarie partenopee impedisce di gioire senza riserve per il voto di domenica. Anche se ieri i complimenti di Bersani a bolognesi e napoletani insieme sono sembrati voler chiudere ogni querelle, il successo di Cozzolino ai danni di Ranieri avrà degli strascichi. Non è però lo strumento delle primarie a uscire male dalla vicenda (anzi, tanti dubbi sulla partecipazione vengono smentiti): è la vita democratica napoletana a confermarsi come un buco nero che inghiotte ogni migliore intenzione.
Il secondo problema nasce invece, paradossalmente, dal successo del Lingotto due. Bersani, Veltroni e Franceschini hanno avuto il merito di cooperare per risparmiare al Pd un altro episodio di rottura, regalandogli invece una ottima giornata di discussione pubblica, utile anche a marcare davanti al paese l’unità e il rilancio del partito mentre Berlusconi si avvita nella crisi. Proprio il carattere unitario dell’iniziativa, in assenza di possibili traumi e di aspettative negative, ha però consentito di evidenziare alcune importanti differenze di contenuti e anche di capacità a veicolarli. A tutto vantaggio di Veltroni il quale – con sua sorpresa, per quel che se ne sa – s’è visto elevato da Scalfari e da Repubblica al rango di salvatore della patria democratica (proprio in alternativa a Bersani), trattato di lusso da tutti gli osservatori, ed è stato rapido a incassare il risultato con una raffica di apparizioni televisive.
Sappiamo quanti nervi scoperti ci siano in casa Pd, quante allergie procuri l’idea di una nuova contesa, fosse anche solo cartacea, sulla leadership. Un po’ di tensione infatti si avverte. Ora però c’è da prendere il buono del ritorno al Lingotto.
Intanto può arrestarsi l’ondata di pessimismo sulle sorti del partito e sulla sopravvivenza del suo progetto originario, che è un veleno molto più pericoloso delle chiacchiere sulle scissioni di pezzi di ceto politico.
Tornano poi utilizzabili per l’intero Pd le virtù comunicative di Veltroni, non più relegate al mugugno: è una risorsa in più, per un partito che su questo versante non ha molti altri punti di forza.
Infine, i contenuti. Ci sarà da vedere sabato a Napoli, in una sessione programmatica fin troppo affollata di temi, quanto riusciranno a farsi strada le proposte del Lingotto. Non sarebbe neanche male (tanto per le elezioni c’è tempo) se al solido impianto liberal di Torino si contrapponesse più apertamente la linea neo-socialdemocratica di D’Alema, sì da consentire a Bersani di cercare delle sintesi, uscire dall’attuale indefinito e magari compiere scelte finalmente di rottura, anche mediatica.
L’imprenditore Ghisolfi, sabato, chiedeva: ma insomma siete per la flexsecurity o per la difesa rigida del posto di lavoro? Un quarto del Pd ha una risposta, un altro quarto ha la risposta opposta, il resto oscilla. Da Mirafiori all’immenso mondo dei lavori individuali o non garantiti, tutto urla che oscillare (rimanendo sostanzialmente fermi) non si può, se si vuole stare dalla parte vera dei lavoratori.
Il grande rischio del Pd è di partecipare magari alla fine del berlusconismo, ma di ritrovarsi all’indomani perdente, marginale, gregario. Certo non sarà il Lingotto da solo a sventare il rischio, ora però si può essere un po’ più ottimisti.