L’Italia siamo noi. O no?
di Emanuele Nenna, CEO Dentsu Creative
In questi giorni di accesa campagna elettorale mi è tornata in mente, chissà per quale strano meccanismo della memoria, la frase di una canzone composta come possibile inno dell’allora nascente Ulivo di Romano Prodi – canzone che forse è solo rimasta in demo, ma che ai tempi ho avuto il privilegio di ascoltare in privato dall’autore.
Vado a memoria, non trovando l’originale su Spotify, ma non credo di sbagliarmi di molto. La strofa suonava più o meno così:
“L’Italia siamo noi, noi che teniamo sempre mille lire sotto al volante, per ripagare l’onestà di un nullatenente che ci pratica un gradito sconto sul lusso di esser nati qua”.
Erano tempi diversi, l’immigrazione aveva un’altra forma, si parlava di vu cumprà e vulavà; in generale, a rileggerla adesso, questa frase suona un po’ anacronistica – non solo per le mille lire. Vero. Ma ci sono due cose che rimpiango di quel passato, pur non essendo un nostalgico, mentre canticchio questa canzone nella testa. La prima è il soggetto della frase, che è quello di tutti i versi della canzone: noi. Noi la vediamo così, la pensiamo così. Noi ci comportiamo in questo modo perché ci preoccupiamo di fare la nostra parte. Noi non passiamo tutto il tempo a parlare di loro, delle loro idee sbagliate, dei danni che farebbero. La seconda è contenuta nella prima, ma ancora più forte: quel “noi” non rappresenta i tifosi di questo o quel partito, di questo o quel personaggio. Quello che fa del singolo una pluralità è una certa comune idea di progresso, un elenco di valori non negoziabili. Una visione chiara, seppur alta e non particolareggiata, del mondo che si vuole.
“E nell’Italia che vogliamo e che ci sarà…”
Questo è l’incipit dell’ultima strofa della canzone. Qui la memoria mi tradisce e non ricordo come andasse avanti, ma mi accontento, perché il senso è già tutto qui: c’è la voglia di una precisa Italia. E la voglia genera determinazione, genera unione, genera slancio, genera argomenti, conversazioni, passione. Anche se quell’inno non ha mai preso vita, e non l’ha sentito nessuno, nel 1996 non siamo andati a votare tappandoci il naso. Anche se non era stagione di grandi ideali e di strade piene di folla con le bandiere, almeno c’era un’idea a cui aderire, in cui sperare. Che spesso le grandi speranze diventano profezie autoavveranti, in politica (così come le grandi paure, purtroppo).
Più vicino nel tempo c’è stato un altro momento in cui una maggioranza di elettori si è riconosciuto in qualcosa: nel 2011 Milano ha scelto un sindaco che parlava di cose belle, di una città viva, aperta -che poi lo è diventata davvero. Dopo la proclamazione di Pisapia, Piazza del Duomo era piena di bandiere arancioni. C’era un noi, arancione. Ed eccoci qui, nel 2022. E mi chiedo: davvero quel “noi” non esiste più? Io non ci credo. Credo invece che ci siano tantissime persone, tra cui i famosi giovani e giovanissimi che cambieranno il mondo, che non vedono l’ora di tornare a sentirsi parte di una nuova visione di futuro, di progresso, calato nel mondo di oggi. E semplicemente, e purtroppo, non c’è nessuno che quel “noi” lo descrive, lo riempie di significati e valori, lo rende seducente. Nessuno che disegni e racconti “l’Italia che vogliamo e che ci sarà”. Nessuno che proponga un sogno, anche fosse un piccolo sogno di cui innamorarsi. Perché? Non lo so, purtroppo, ma un’ipotesi ce l’ho, e nasce dal pulpito della mia professione di pubblicitario, e della mia esperienza “politica” di presidente di un’associazione che era frammentata e litigiosa e che in cinque anni è diventata la più grande e carismatica espressione del mondo della comunicazione. È un’ipotesi che formulo così: ci siamo tutti dimenticati del ruolo e del potere della buona comunicazione, accontentandoci di quella cattiva, e ora non la sappiamo più fare; confondiamo il valore dei contenuti con la loro visibilità; pensiamo che sia brillante un politico ottuagenario che compare su TikTok e, nella rincorsa alla cosa sbagliata, sbagliamo. A forza di considerare bravi comunicatori personaggi che usano argomenti falsi, promesse irrealizzabili, volumi alti, abbiamo smesso di guardare quelli che davvero sono buoni comunicatori. Quante volte mi sono sentito dire: “eh, lui (o lei) sì che sa come parlare alla pancia delle persone, almeno in questo è un (o una) fuoriclasse”. Continuiamo a confondere successi tattici ed effimeri con fantomatiche qualità (leggete questo post di Luca Sofri, a proposito). È così che si abbassa il livello medio, invece di provare a riportarlo in alto. Abbiamo iniziato a leggere compulsivamente i sondaggi e ad adeguarci a quelli, senza farci domande, e sicuramente senza farci le domande giuste. Bill Bernbach, forse il più grande pubblicitario di tutti i tempi, disse una volta: “siamo così ossessionati dai dati e le statistiche che ci dimentichiamo che il nostro lavoro è generarli”. (E lui in effetti è riuscito a vendere agli americani abituati ai pick-up e nemici della Germania una macchina piccola e tedesca -e considerata brutta come uno scarafaggio).
Alessandro Baricco in una delle sue lezioni sulla letteratura definisce i tre ingredienti della narrazione: la storia, la trama e lo stile. Mentre vi consiglio di leggere integralmente l’originale (potete comprare qui il testo), io prendo in prestito la sua idea di “storia” come elemento centrale, che regge e dà senso a tutto. La storia è l’essenza, è un campo magnetico tridimensionale, che prende forma attraverso la trama. I personaggi (che nel personalismo di oggi, in cui in ogni simbolo politico c’è un nome che domina) non sono affatto la storia, al limite sono una parte della trama. La storia nasce da un’illuminazione, un’intuizione, è -nelle parole di Baricco- un “tassello di mondo che inizia a vibrare”. Se manca quello, sia la trama (che ha il compito di attraversarla per renderla comprensibile ai lettori) sia lo stile (che ne è la forma, o la voce) valgono poco. O niente.
Ecco: nella narrazione politica progressista manca una storia. Forse perché scarseggiano i bravi autori, o forse – ed è un pensiero figlio dell’ipotesi di cui sopra, e contiene una speranza di reversibilità – mancano soltanto la comprensione della sua importanza, la voglia di cercarla e la capacità – che si esercita e si impara- di trovarla. Credo sia troppo tardi, ormai, per aspettarsi una storia in tempo per il 25 settembre. Personalmente mi unirò a quelli che, non avendo un sogno a cui aderire, si limiterà a provare a ridimensionare l’incubo. E mi spingo a sperare che saremo in tanti a farlo. Anche quelli che lucidamente non avrebbero nessuna voglia di passare, con un voto a favore, il messaggio che va bene così. Che ci basta “scegliere” tra Putin e l’Europa. Ci tocca, ma non ci basta. (Parentesi da addetto ai lavori, pur essendo fan dell’agenzia creativa scelta dal PD, giudico molto severamente la campagna pubblicitaria del “scegli”. Ma come sempre accade nel nostro mondo, una buona campagna nasce quando c’è un buon prodotto. O almeno un buon cliente, con un buon brief. È evidente, per tutto quello di cui stiamo parlando qui, che in questo caso non c’era niente su cui costruire e c’era il brief sbagliato. Chiusa parentesi).
Dopo queste elezioni però, comunque vada, cerchiamola questa storia. Troviamo quel tassello e facciamolo vibrare, tutti noi che la vogliamo, una storia. Tutti noi che vorremmo un’Italia progressista, rispettosa e rispettata, bella da vivere e da visitare, intraprendente, gentile, creativa, liberale, contemporanea, colta, intelligente, aperta, solidale, produttiva, inclusiva, equa, sostenibile e che ci assomigli, non aspettiamo in silenzio. Siamo in tanti, ne abbiamo voglia e bisogno: svegliamoci dal torpore. E sono convinto che qualcuno bravo davvero arriverà, che sia una venticinquenne talentuosa o un fuoriclasse alla Draghi, se sentirà che c’è spazio per lei o per lui. Se capirà che, anche se oggi sembriamo scoraggiati, abbiamo tutti (in tanti) voglia di tornare a cantare una canzone in cui riconoscerci. Preferibilmente che non sia la Terra dei Cachi, dei miei amati EELST.