Dieci cose belle del 2020 – Una lista privata
1. Mi è nato un figlio, il secondo. In un ospedale di Boston, spettrale, asserragliato, teso per l’emergenza, al picco dell’epidemia. Le conversazioni sul fare figli sono sempre punteggiate di tabù e cliché, il che rende impossibile trattare la questione in poche righe senza essere blasfemi o stucchevoli. Nella mia bolla di istruiti, laici e progressisti, un certo individualismo striminzito tratta il fare figli come una questione di piacevolezza personale. Così il bon ton sconsiglia di far figli per ragioni diverse da un accorato entusiasmo per le cose bambinesche; e sconsiglia anche, quando il figlio lo hai fatto, di discutere troppo i costi esistenziali di quella scelta (cioè che fare figli significa non fare altre cose, altri lavori, altri progetti, altre gioie).
Da screanzato (soprattutto per i locali: l’America prende il bon ton molto più seriamente dell’Europa) trovo quest’approccio filosoficamente sballato e nocivo per la felicità individuale e collettiva. Fare figli è una faccenda assai poco individuale. Riguarda proprio, letteralmente, la creazione di altre persone. E il bello sta lì: non tanto nella piacevolezza, ma nel prendere parte a una cosa che scavalca la strettezza individuale. Il vocabolario sentimentale dell’individualista laico fatica a comprendere questa posizione, diciamo così, trascendente.
Sarebbe il caso di aggiornare i vocabolari e il bon ton. In troppi invecchiano nell’attesa di trovare dentro di sé la scintilla di perfetta beatitudine genitoriale propagandata su Instagram dai beneducati. In troppi si vergognano a confessare che un motivo importante per riaprire le scuole è togliersi un poco i figli di torno o che le fatiche e le rinunce sembrano a volte ingestibili. Siate più screanzati e più trascendenti. Lamentatevi pure della fatica dei figli, escogitate modi per divincolarvi di tanto in tanto, confessatevi pure provati e smarriti, fantasticate con gli amici davanti al vino sul romanzo che avreste scritto o sull’appartamentino a Bethune Street in cui avreste vissuto. Va bene così. Il segreto sta nel capire che questa storia vi riguarda solo fino a un certo punto. E che c’è di più vertiginoso che spostare il bandolo della trama della vostra vita fuori dal perimetro striminzito del vostro io?
2. Abbiamo capito meglio (o almeno avremmo dovuto capire) che vita, salute e libertà non sono valori incommensurabili. Ma cose che la realtà ci forza a soppesare, bilanciare, compromettere con altre. Certo: che le cose stiano così non è una bella cosa. Sarebbe meglio avere un budget infinito con cui permetterci sempre benessere economico, comodità, libertà, salute, vita, senza limiti e trade-off. Ma non è così, e imparare cose è sempre buono, anche quando le si impara con le cattive. Per scrivere questo pezzo sui trade-off della pandemia, finito nel pieno della prima ondata del virus e pubblicato a maggio sulla Boston Review, ho riletto le belle pagine di Martha Nussbaum sul tragico dilemma di Agamennone: abbandonare i greci alla sconfitta militare o sacrificare la figlia Ifigenia. Per Nussbaum (o meglio per Eschilo) il fatto che Agamennone faccia la scelta giusta (cioè scelga il male necessario, minore) non lo assolve. Questa concezione tragica della scelta morale è un bellissimo antidoto alla hybris del decision-making illuminista e progressista (che è la via perlopiù giusta):
An act that we were prepared to view as the lesser of two hideous wrongs and impieties has now become for him pious and right, as though by some art of decision-making he had resolved the conflict and sisposed of the other ‘heavy doom’. At the same time, we notice that the correctness of his decisioni s taken by him to justify not only action, but also passion: if it is right to bey the god, it is right to want to obey him, to have an appetite (epithumein) for the crime, even to yearn for it with exceedingly impassioned passion. Agamemnon seems to have assumed, first, that if he decided right, the action chosen must be right; and, second, that if an action is right, it is appropriate to want it, even to be enthusiastic about it. From ‘Which of these is without evils’ he has moved to ‘May all turn out well.’ The Chorus’s repeated refrain is, ‘Sing sorrow, sorrow, but may the good prevail’. Agamemonon’s conclusion, which from one point of view seems logical and even rational, omits the sorrow and the struggle, leaving only the good.
3. Abbiamo capito meglio (o almeno avremmo dovuto capire) che le decisioni politiche non si riducono a quel che dicono gli “esperti”. Accennavo a questa cosa nel pezzo citato sopra, ma di recente Ross Douthat l’ha spiegato perfettamente sul New York Times. I nuovi oscurantisti rifiutano la scienza ma i difensori della scienza, in un eccesso di semplificazione, dimenticano che ci sono domande complesse—domande morali e politiche—che non possono essere delegate a virologi ed epidemiologi.
“Who is actually an essential worker?” or “Should we focus more on slowing the spread or reducing the death rate?” (Or even, “Should we vaccinate men before women given that men are more likely to die of the disease?”)
These are the kind of questions, in other words, that our elected leaders should be willing to answer without recourse to a self-protective “just following the science” default. …
When we look back over the pandemic era, one of the signal failures will be the inability to acknowledge that many key decisions — from our vaccine policy to our lockdown strategy to our approach to businesses and schools — are fundamentally questions of statesmanship, involving not just the right principles or the right technical understanding of the problem but the prudential balancing of many competing goods.
On the libertarian and populist right, that failure usually involved a recourse to “freedom” as a conversation-stopper, a way to deny that even a deadly disease required any compromises with normal life at all.
But for liberals, especially blue-state politicians and officials, the failure has more often involved invoking capital-S Science to evade their own responsibilities: pretending that a certain kind of scientific knowledge, ideally backed by impeccable credentials, can substitute for prudential and moral judgments that we are all qualified to argue over, and that our elected leaders, not our scientists, have the final responsibility to make.
4. Ho ascoltato almeno due dischi pazzeschi usciti quest’anno, di grande energia, invenzione, amore per la musica, e straordinarie voci femminili: Fetch the Bolt Cutters di Fiona Apple e The Lost Berlin Tapes di Ella Fitzgerald (un concerto del 1962 ma la registrazione è stata ritrovata e pubblicata quest’anno). Altri begli album femminili di quest’anno: il doppio di Adrianne Lenker (Songs / Instrumental), Women in Music Pt. III delle Haim, e il limpidissimo folk di Waxahatchee (Saint Cloud). Un altro bellissimo disco, un vero gioiello nascosto, è A Warm Weather Ghost di Tunde Adebimpe.
5. Un bel disco nostalgico, che è subito 2008, abbiamo ancora venti-e-qualcosa anni, abbiamo per davvero quell’appartamentino vicino a Bethune Street, e tutti i gruppi imitano gli Strokes:
6. Si è tornati a dibattere della responsabilità sociale dell’impresa con gusto, intelligenza polemica, rivisitazioni di vecchie idee, e proposte nuove. Lo Stigler Center della University of Chicago, diretto da Luigi Zingales, ha raccolto in un e-book gratuito varie e diverse riflessioni sull’eredità di Milton Friedman e del suo famoso e influente articolo del 1970 in cui sosteneva energicamente che la sola responsabilità sociale della corporation è di creare profitto per gli azionisti. Ci sono anche due miei piccoli contributi (uno scritto con Lucian Bebchuk, l’altro con Bebchuk e Kobi Kastiel) che riassumono due nostri paper estremamente scettici sulle attuali proposte di “stakeholder governance”.
7. Costretti dalle circostanze drammatiche, abbiamo fatto esperimenti collettivi radicali. Chi l’avrebbe mai detto che saremmo potuti passare così, dalla sera alla mattina, ad avere circa metà della gente che lavora da casa e non solo non è stato un disastro ma si è rivelato un ottimo affare per molte aziende e tante persone? Chi l’avrebbe pensato che il vaccino per il Coronavirus sarebbe stato disegnato in soli pochi giorni (già il 13 gennaio) e testato, approvato, e iniettato alle prime persone in pochi mesi? Chi l’avrebbe immaginato che tanti paesi avrebbero semplicemente spedito soldi alla maggior parte dei cittadini—la cosa più vicina a un reddito di base universale mai sperimentata—quando soltanto ieri quest’idea era considerata un’utopia radicale? Sia chiaro: io non voglio lavorare da casa (ma la flessibilità di poterlo fare, di tanto in tanto, è un’ottima cosa); tantissimi lavoratori non hanno avuto il privilegio di poterlo fare (e sono i più colpiti dal Covid-19); la battaglia dei vaccini contro il virus è ancora da combattere; e l’idea di un reddito di base pagato a tutti anche senza pandemia ha luci e ombre (gli argomenti a favore sono spiegati con rigore e efficacia da Annie Lowrey in un libro di due anni fa). Ma c’è qualcosa di enormemente storto nella pigrizia burocratica con cui ci accomodiamo collettivamente, quieti quieti, nel solco delle cose, e ci dimentichiamo di provare, sperimentare, osare.
8. Ayad Akhtar ha pubblicato un romanzo appassionato, Homeland Elegies, inquietante, intelligente, un po’ memoir, un po’ fiction, un po’ saggio politico e riflessione sull’identità e l’America, e l’essere un immigrato in America, e la solitudine e le radici, e il filo-americanismo delle aspirazioni e l’anti-americanismo delle delusioni. Per molti versi un antidoto al mio, di filo-americanismo.
9. Forse per via dell’eccesso d’intimità imposto dal social distancing, mi sono ritrovato a leggere poesia più di frequente, anche se non ne so poi granché. I miei versi preferiti del 2020 parlano di contatti, di toccare. Aracelis Girmay ha pubblicato il suo Kingdom Animalia nel 2011, ma la sua Elegy è tradotta in italiano in una raccolta di quest’anno (il mio amico Roberto Galofaro ne parla qui, intervistando curatore e traduttore): Listen to me. I am telling you / a true thing. This is the only kingdom./ The kingdom of touching;/ the touches of the disappearing, things.
Ada Limón sul New Yorker del 4 maggio scrive di averne abbastanza di tutti i temi e luoghi stanchi della poesia e di volere qualcosa che crei un contatto: enough of can you see me, can you hear me, enough / I am human, enough I am alone and I am desperate, / enough of the animal saving me, enough of the high / water, enough sorrow, enough of the air and its ease,/ I am asking you to touch me.
E Campbell McGrath (sempre sul New Yorker, il 27 aprile) parla di New York, di giovinezza, e di feste: I remember the parties we used to throw on Jane Street, / shots of tequila and De La Soul on the tape deck, everyone / dancing, everyone young and vibrant and vivacious—/ decades later we discovered a forgotten videotape / and our sons, watching with bemused alarm, blurted out,/ Mom, you were so beautiful! She was. We all were, / everyone except the city.
E Lauren Shapiro dalla sua raccolta Arena: I opened my arms / to touch the beautiful butterflies / as they landed like leaves coming back / to a dead tree. I was the tree. / I could only understand the present. / I can only understand the present.
10. La cosa più bella di Soul, il nuovo film Pixar, è New York. Energica, brulicante, musicale, frenetica. Che miraggio incredibile in questa interminabile rarefazione della pandemia. Prego gli dèi delle Città che i futuristici visionari del remote work abbiano torto marcio e che continueremo ad avere città nervose e affollate, musicisti di strada, locali jazz, ristoranti strapieni, taxi difficili da fermare, e gente che va di fretta a un qualche fantastico appuntamento.