Tre rompicapi su Facebook e le regole
La cosa più divertente che ho letto su Twitter durante l’audizione di Mark Zuckerberg al Senato americano è la battuta di un tizio che diceva che Zuckerberg doveva sentirsi come un nipote interrogato da un comitato di nonni su come si programma il videoregistratore.
Mi ha fatto sorridere. Basta avere un pochino di familiarità con i gadget del presente per percepire il gran divario con chi questa familiarità non ce l’ha, la difficoltà di colmarlo, e le enormi implicazioni che questo divario ha per capire e governare il mondo in cui viviamo.
I senatori americani non hanno bene idea di come funzioni Facebook, vero, ma chi ce l’ha? Sfottere i genitori o i nonni ci fa sentire al sicuro, ma la verità è che oggi non basta essere “élite” per capirci qualcosa dei principali meccanismi del potere e del business. La complessità è tale che i dettagli sfuggono a molti. Si può essere persone molto informate sul mondo, sugli affari, sulla politica, bravi nel proprio campo e generalmente attenti alle cose importanti, eppure non avere la più pallida idea dei problemi legati alla protezione dei dati online, o dello stato dell’arte della ricerca sul rischio esistenziale nell’intelligenza artificiale, o dell’effetto delle nuove tecnologie finanziarie – per dire tre temi estremamente rilevanti per lo stato delle cose.
Questo è il primo rompicapo per chiunque si ponga il compito di “regolare” Facebook. Nel 1971, George Stigler, professore di economia alla University of Chicago (e in seguito vincitore del Nobel), introdusse la sua famosa teoria della regolamentazione secondo cui i gruppi di interesse in vari settori dell’economia usano lo stato e le sue norme per i propri interessi. Stigler voleva smitizzare la concezione idealistica del governo, per cui tasse, dazi, regole, divieti sono imposti nell’interesse del pubblico, facendo notare come invece molte volte la regolamentazione viene “acquistata” dall’industria per aumentare i profitti. Gli esempi tipici fatti da Stigler sono i sussidi pubblici all’aeronautica, i dazi per certi prodotti, le limitazioni all’ingresso di nuovi concorrenti in moltissimi settori, o il controllo pubblico sui prezzi. In questi casi, l’industria “cattura” il regolatore e lo usa per i propri fini, a danno dei consumatori.
Ma il caso di Facebook è molto diverso. Qui la “cattura” sembra più un inevitabile gap tecnico. Se voglio capire se c’è qualcosa che non va in Facebook e prendere provvedimenti, a chi posso chiedere? A Facebook, ovviamente. Loro sono i più esperti, ma hanno un evidente conflitto di interessi.
Il secondo rompicapo riguarda la “proprietà” dei dati. In giro si sente molto parlare della protezione dei dati come se si trattasse di qualcosa che ci appartiene interamente, un bene di proprietà come altri. Ma le cose forse sono più complicate di così. Come ha notato Alex Tabarrok, professore di economia alla George Mason University, qualche giorno fa, molti di quelli che chiamiamo i “nostri dati” non esisterebbero senza Facebook. I contatti che abbiamo, le relazioni coi cugini lontani, con gli amici delle medie, o con sconosciuti che vogliono leggere quello che scriviamo sono una co-creazione nostra, dei nostri “amici”, e di Facebook. Prima di Facebook non esistevano e senza Facebook non esisterebbero. Sono davvero “nostri”?
Il terzo rompicapo è che mentre tutti percepiamo, seppur con una certa vaghezza, il grosso rischio di dare a qualcuno tutte quelle informazioni su così tanti di noi, la situazione attuale sta bene a tutti, almeno per adesso. Facebook fa un sacco di soldi. I politici americani usano Facebook per il loro marketing politico. E a noi utenti va bene pagare l’uso di Facebook con l’accesso a tutte quelle informazioni. In uno studio recente, alcuni ricercatori hanno proposto a un ampio campione di persone di cancellarsi da Facebook per un mese in cambio di soldi. Il compenso mediano richiesto si aggira sui 40-50 dollari. È vero che molti di noi non sanno in realtà che cosa stanno dando a Zuckerberg per avere Facebook gratis, ma non sono sicuro che tanti utenti bene informati e scafati siano pronti a rifiutare 600 dollari l’anno (cioè il valore che diamo all’uso di Facebook secondo quello studio) per mantenere la loro privacy.
Insomma: sappiamo che è potenzialmente un problema grosso, ma non ci capiamo granché; non sappiamo come affrontarlo, ci basiamo su premesse semplicistiche, e in ogni caso nessuno ha grossi incentivi a cambiare le cose. Sono tre grossi rompicapi e risolverli non sarà per nulla facile.