La prova contraria
Di fronte alle tante accuse di molestie sessuali di questi giorni, si è invocata la presunzione di innocenza. Siamo tutti innocenti fino a prova contraria, si dice (in realtà la legge dice cose diverse, in vari luoghi e con varie sfumature, ma il punto qui è un altro). In tanti si sono chiesti se in questa vicenda stiamo rispettando quel principio, se abbiamo ragioni eccezionali per non farlo, o se non ci stiamo proprio ponendo la domanda.
Quando si tira in ballo la presunzione di innocenza si finisce per concentrarsi su quella parola, innocenza. Ma la parte più complicata del principio arriva dopo: “fino a prova contraria”. Insistere sulla presunzione ha un certo valore pedagogico, perché l’istinto spesso ci porta a emettere condanne affrettate. Ma il macigno filosofico è l’altro: Che cos’è una prova contraria? Quando possiamo dirci soddisfatti delle prove presentate? Sbagliare questa risposta rende inutile l’intero meccanismo, perché è facile dire di rispettare la presunzione di innocenza e poi accontentarsi di prove fragilissime per superarla. Allo stesso modo, è facile ignorare i dati a disposizione scambiando la presunzione di innocenza per l’innocenza vera e propria. La prova contraria è quindi il rompicapo da risolvere.
Qui però le cose si fanno più complicate. La presunzione di innocenza, dopotutto, per quanto a volte emotivamente faticosa, è facile da capire. Ma la prova contraria è un concetto sfuggente. Quand’è che un fatto può dirsi provato? La risposta più ingenua è che la prova contraria è quella che ci dà la certezza della colpevolezza. È un’idea rassicurante, ma poco realistica. Se non siete Jessica Fletcher, è raro che il colpevole crolli davanti alle vostre domande e ammetta il fattaccio.
La questione dà le vertigini, ovviamente. Non è certo solo un problema di giudici e avvocati. Da secoli, il problema dell’accertamento dei fatti dà lavoro a teologi, filosofi, scienziati. Quando poi a quell’accertamento conseguono punizioni severe, la questione epistemologica diventa un affare politico urgente.
Ci sono almeno due aspetti interessanti, però, che ci dovrebbero far vedere un lato nascosto del problema.
Il primo è che nessun giudice – in un tribunale o altrove, voi compresi – può pretendere la certezza assoluta. Nel processo penale italiano la formula è la stessa dei film americani: il reato va provato al di là di ogni ragionevole dubbio. È un’espressione entrata nei nostri codici per via di una legge del 2006, ma il concetto era più o meno presente già prima. È un criterio giustamente severo, che assomiglia parecchio alla certezza assoluta: se c’è un dubbio ragionevole, bisogna assolvere l’imputato.
Che cosa sia un dubbio ragionevole, però, è difficile dire, e nella pratica si finisce per essere molto meno rigorosi che nella teoria. Guardate queste istruzioni date dal giudice a una giuria californiana: “La prova oltre ogni ragionevole dubbio è una prova che vi lascia con la durevole convinzione che l’accusa sia vera. Non è necessario che le prove eliminino tutti i possibili dubbi, perché tutto nella vita è esposto a qualche dubbio possibile o immaginario”. Qualche dubbio, insomma, va sopportato. Ma fino a che punto?
Per una causa civile, poi, il criterio è assai meno esigente. Si parla spesso di preponderanza della prova: basta, cioè, che le probabilità che il fatto sia accaduto siano un filino maggiori delle probabilità che non sia accaduto. Più probabile che non, insomma. Dubbi ragionevoli, e persino consistenti, possono essere tollerati.
La prova contraria, quindi, almeno per la legge, può essere una prova incerta. E quale dovrebbe essere allora il grado di certezza per chiedere le dimissioni di un parlamentare, ritirare un premio a un attore, cancellare uno spettacolo, togliere il saluto a un vicino?
Il secondo aspetto interessante è la curiosa origine storica del “ragionevole dubbio”. Da bravi illuministi, pensiamo tutti che sia un principio che protegge l’accusato. E lo è, nel XXI secolo. Fu inventato però per proteggere chi doveva pronunciare la condanna. O meglio, la sua anima. James Whitman, professore a Yale, racconta che le origini del “ragionevole dubbio” vanno cercate nella teologia cristiana pre-moderna. Condannare un innocente era peccato mortale. Così il principio cercava di rassicurare i giurati e spiegare loro in che modo potevano condannare l’imputato senza rischiare il castigo eterno. Se il loro dubbio non era “ragionevole”, nessuna paura: potevano condannare e salvarsi l’anima allo stesso tempo. Insomma, in un certo senso il “ragionevole dubbio” non serviva a rendere le condanne più difficili, ma a renderle più facili.
Sembrano cose tecniche, sfizi eruditi, con poca rilevanza pratica. Ma non credo che sia così. La paura dell’inferno dei giurati cristiani del XVII secolo assomiglia molto alla nostra istintiva ricerca di una rassicurante “certezza assoluta”. Questa è l’altra faccia della prova contraria. Per un sacco di gente, soprattutto dietro alla tastiera, l’istinto più frequente è la condanna affrettata. Ma per tanti altri, e in tante altre occasioni, è la paura di giudicare. Cioè, la tentazione di non esporsi, di girare lo sguardo, di non impicciarsi, di non condannare. Non servono le fiamme dell’inferno per dissuadere gente benintenzionata dal giudizio. A volte bastano le battute ciniche dei conoscenti più smaliziati.
Il giudizio è una cosa complicata. Ma lo è in qualsiasi caso. Nessuno ci assicura che i giudizi clementi abbiano conseguenze meno dolorose. È una trappola da cui non si scappa: bisogna lottare coi fatti, tirare le somme, e – inevitabilmente – convivere col dubbio. Saper convivere col dubbio è il miglior antidoto al fanatismo. Se ci si convince che prova e dubbio non possono stare assieme – come predicavano i teologi spagnoli del cinquecento – si finisce per inventarsi delle solide certezze per giustificare condanne e assoluzioni. Ma è solo una finzione. Le certezze degli inquisitori e dei cinici sono entrambe favolette rassicuranti per bambini paurosi.