Le colpe di Facebook e le nostre
Da qualche tempo si discute parecchio del ruolo che ha avuto Facebook, e il suo sistema di pubblicità mirate, nel successo della propaganda russa pro-Trump. A quanto pare, centinaia di account riconducibili al governo russo hanno usato Facebook e altri social media per diffondere contenuti che accrescessero le simpatie degli americani per Donald Trump e le antipatie per Hillary Clinton. Le ultime notizie, accolte con grande sgomento, dicono che 126 milioni di utenti di Facebook sono stati esposti a contenuti di questo tipo: un’enormità.
Una commissione parlamentare americana sta indagando sulla faccenda e dirigenti di Facebook, Twitter e Google hanno dovuto rispondere alle domande di vari senatori qualche giorno fa. La senatrice Dianne Feinstein, democratica della California, ci è andata giù pesante. “Credo che non vi rendiate conto” ha detto “Stiamo parlando di un cambiamento apocalittico…. La responsabilità è vostra. Voi avete creato queste piattaforme e ora vengono usate per scopi illegittimi. O fate voi qualcosa in proposito o lo faremo noi”.
La preoccupazione di tutti è comprensibile e fondata. Le pubblicità di Facebook consentono di indirizzare contenuti a categorie molto specifiche (per esempio, siciliani che vivono a Milano con la passione per il basket, i film di kung-fu e le cantanti jazz degli anni ’40). Ed è possibile che nessun altro venga mai a sapere di che tipo di contenuti si tratta, eccetto Facebook e quelle persone lì.
Ma quel che spesso si dimentica è che l’offerta di contenuti è pressoché inutile senza una domanda. La gente che clicca, segue, condivide, gradisce, e si infervora per questo o quel post lo fa perché ne trae piacere, esattamente come chi ne trae piacere decide di leggere un editoriale di Travaglio o di Ezio Mauro, un pezzo d’opinione esagerato e scriteriato del Foglio per épater le bourgeois, uno spiegone diligente del Post, o un’analisi pacata e dettagliata di qualche esperto della materia. Ognuno segue i propri gusti e Facebook ha solo trovato un modo più efficiente per accontentarli. Di chi è quindi la colpa – o, quantomeno, la colpa maggiore – di chi ha quei gusti o di chi li soddisfa?
La risposta è complicata, ma di certo non possiamo dirci assolti. Se clicchiamo è perché ci piace. Se spendiamo ore a compulsare video di battibecchi o a leggere filippiche brillanti ma superficiali invece che leggerci qualche dato preciso o ragionamento complicato sullo stesso argomento è perché troviamo i video e le filippiche più divertenti. Lo stesso accade per i rimedi alle erbe contro il cancro, gli sfoghi di rabbia sociale o le farneticazioni fasciste. L’algoritmo di Facebook ha un solo scopo: fare soldi. E un modo classico per fare soldi è dare ai consumatori ciò che li attrae.
Qualche tempo fa ascoltavo una conversazione tra il giornalista Ezra Klein e Danah Boyd, antropologa e computer scientist che si occupa di social media. E boyd ha detto una cosa interessante. Quando Netflix spediva DVD per posta e chiedeva ai suoi clienti di fare una lista dei film che volevano vedere, il tipico utente di Netflix ci doveva ragionare su e finiva per indicare quei film che “idealmente” voleva vedere. Oggi che basta un clic per cominciare a guardare un film su Netflix (e un altro clic per cambiarlo) la domanda che l’utente si fa, secondo Danah Boyd, è “Che cosa mi va proprio adesso, in questo preciso momento?”. Insomma, da un lato ci sarebbero le preferenze di un nostro sé ideale, della persona che vorremmo essere ponendoci in una prospettiva di lungo periodo. Dall’altro lato ci sono le preferenze del nostro “immediate self“, della piacevolezza istantanea e immediata. Oggi chi ci vende contenuti, grazie alla quantità di dati che ha e agli strumenti con cui metterli a frutto, riesce a stuzzicare il nostro immediate self con una precisione mai vista prima. Ma sono le nostre preferenze, i nostri gusti, il nostro piacere che questi venditori vogliono accontentare. Non possiamo dare la colpa a loro per ciò che ci diverte.
Se questo sistema spalanca le porte alla propaganda, agli estremismi, alle bufale, alle epidemie di malattie che erano state debellate, le implicazioni di quel che dice Danah Boyd sono terrificanti. Vorrebbe dire che quanto più diventiamo bravi a ottenere in fretta quel che ci dà piacere quanto più facciamo danni per la società. La dichiarazione di indipendenza americana dice che gli esseri umani hanno, tra gli altri, questi tre diritti inalienabili: alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità. Ma che facciamo se quel che ci rende felici – be’, non proprio felici, ma gradevolmente intrattenuti – è a lungo andare gravemente dannoso per la vita e libertà di tutti?
Sono sempre stato un ottimista dell’internet e del progresso tecnologico, e in gran parte continuo a esserlo, ma credo che non possiamo sbarazzarci del problema con un semplice atto di fiducia. D’altro canto, però, non possiamo comodamente nasconderci dietro al biasimo per l’algoritmo di Facebook, la cui principale colpa è quella di darci roba che ci piace. Certo, tra la roba che ci piacerebbe consumare, Facebook predilige quel che crea più profitto, senza dubbio. Ma cosi hanno sempre fatto tutti quelli che ci hanno venduto contenuti sin dall’alba del commercio. Facebook lo fa semplicemente meglio di altri.
Vuol dire che siamo spacciati e che quanto più ci avvicineremo alla perfetta piacevolezza quanto più distruggeremo la civiltà che qualcuno prima di noi aveva faticosamente messo in piedi? Non credo – o, almeno, spero di no: non sono pronto a essere cosi pessimista. Invece di dar la colpa ai bottegai per quel che ci vendono, però, potremmo cominciare a farci qualche domanda su quel che abbiamo chiesto di comprare. O, quantomeno, che abbiamo accettato di consumare.