Quante ore di treno vale il tuo voto?

Uno dei principi cardine delle democrazie, quello per cui ciascun elettore ha un solo voto da esprimere, ha un problema: non dà alcuna rilevanza al valore dei singoli voti. Ci sono questioni a cui teniamo parecchio e altre su cui abbiamo opinioni traballanti e precarie; candidati per cui abbiamo una forte preferenza, e candidati che a malapena distinguiamo dagli avversari. Ci sono decisioni politiche che possono cambiare la vita di una persona, ma a cui tanta altra gente è poco interessata.

Per qualsiasi sistema elettorale, però, tutti questi voti valgono sempre uno. Così può succedere che una proposta sia bocciata e un candidato perda anche se il loro valore complessivo per gli elettori è maggiore del valore della proposta o del candidato che ha vinto.

Pensate al caso di un referendum per abrogare la legge sulle unioni civili. Una lievissima maggioranza vota Sì al referendum: 51% contro 49%. Il referendum viene approvato e la legge sulle unioni civili è cancellata. Questo risultato non ci dice granché sul valore delle unioni civili per gli italiani. Se per una minoranza tra quelli che hanno votato No (diciamo il 10% degli elettori) il riconoscimento delle unioni civili ha un valore di una certa misura superiore rispetto al resto della popolazione, l’esito del referendum è ingiusto. Ed è realistico pensare che sia davvero così in molte questioni che riguardano i diritti di una minoranza.

Per capire questo punto possiamo inventarci un esempio numerico basato su una storia vera. A 21 anni mi feci 30 ore di treno in tre giorni per votare alle elezioni politiche.  Cose di gioventù, insomma. Le ore di treno non sono esattamente un’unità di misura scientifica del valore di una proposta politica, ma per i fini di questo post possono andare.

Abbiamo detto che la stragrande maggioranza degli elettori non considera la questione delle unioni civili di vitale importanza. Una parte è a favore, un’altra parte è contraria, ma nessuna delle due fazioni è particolarmente appassionata alla faccenda. Nessuno di questi elettori, insomma, si farebbe 30 ore di treno in 3 giorni. Anzi, nessuno se ne farebbe neppure 10 o cinque. Sopporterebbero, ipotizziamo, due ore di treno per votare Sì o No. Poca roba. Nonostante il frastuono che si vede sui giornali, nei talk show e sui social media, è realistico pensare che questa mite pigrizia accomuni la stragrande maggioranza degli elettori sulla stragrande maggioranza delle questioni.

Per una piccola minoranza di elettori, invece, mantenere la legge è importantissimo. Ipotizziamo, sempre per inventare qualche numero, che per quel 10% di elettori la questione è cento volte più importante.

Se vogliamo proprio fare i conti, sulla base degli elettori che hanno votato alle ultime politiche e i numeri inventati dell’esempio, possiamo dire che la legge sulle unioni civili verrebbe abrogata nonostante il suo mantenimento valga più di 700 milioni di ore di treno, e l’abrogazione valga invece meno di 36 milioni di ore.  La misura delle ore di treno è un po’ sciocca e fa sorridere. Ma il concetto è chiaro: in aggregato per gli elettori italiani la legge avrebbe molto più valore che disvalore e ciononostante verrebbe abrogata. Il risultato del referendum distrugge valore per la società, semplicemente perché il voto di chi dà molto valore alla questione vale esattamente quanto quello di chi non è granché interessato.

Molti di voi saranno scettici. Che il voto debba avere lo stesso valore per tutti è un principio sacro. E anche se volessimo dar maggior peso a chi tiene di più alla questione, come si fa a misurare l’intensità delle preferenze? La questione è infatti di difficile soluzione e solleva problemi delicatissimi. Ma sperimentare, anche solo con le idee se non con la pratica, è importante (oltre che divertente).

Qualche giorno fa il Washington Post ha pubblicato 38 idee, più o meno eccentriche o radicali, per migliorare la democrazia. Alcune di queste sono piuttosto interessanti. Eric Posner, professore di diritto a Chicago, ha riassunto (e lievemente adattato) un’idea avanzata un paio di anni fa da lui e dall’economista Glen Weyl. L’idea ha proprio a che fare con l’intensità delle preferenze degli elettori. Posner propone che a ciascun elettore sia dato un certo numero di crediti da spendere in un certo numero di anni. I crediti servono per “comprare” voti. Se sono tiepidamente a favore del candidato nazionale del PD, posso spendere un solo credito per esprimere un voto, alla vecchia maniera. Ma se dopo un anno mi ritrovo fortemente a favore di un certo candidato locale, posso usare i crediti risparmiati per comprare più voti ed esprimere quindi non solo uno, ma due o tre o più voti. Se ho un certo budget per cinque o dieci anni, cercherò di usare i crediti in modo che riflettano il valore che do alle questioni politiche e ai candidati. Ci sono dei tecnicismi piuttosto importanti (se siete interessati, leggetevi il paper di Posner e Weyl) ma il succo dell’idea è questo.

In realtà, la proposta dei due autori (al contrario della versione edulcorata proposta al Washington Post) prevede che i cittadini possano comprare voti versando dei soldi in un fondo comune che viene poi redistribuito a tutti i cittadini. Comprare voti coi soldi è un tabù ancora più grande di avere voti diseguali. Anche se i prezzi sono il modo in cui misuriamo le nostre preferenze su un gran numero di questioni della vita, poco o anche molto importanti, ci sembra intuitivamente sbagliato dare un prezzo al voto politico.

Ma qualunque cosa pensiate di un mercato regolato dei voi o di un budget di crediti elettorali, il problema del valore resta. Se non altro, riflettere sul valore che sta dietro al voto potrebbe aiutarci a mettere le cose in una prospettiva più realistica. Quanto spendereste (in ore di treno, crediti, o soldi contanti) per scegliere tra una maggioranza PD più Forza Italia e una maggioranza M5S? E per le adozioni da parte di coppie dello stesso sesso? Per aumentare il rimborso delle spese veterinarie ai padroni di animali? Per avere come sindaco Sala invece di Parisi? A volte la gretta economia aiuta a fare gli esami di coscienza.

 

 

Roberto Tallarita

Studia cose tra diritto e economia, ma ha sempre il cruccio della filosofia. Ha vissuto in Sicilia, a Roma, a New York, a Milano; e ora a Cambridge, Massachusetts. Gli piacciono i libri, i paesaggi americani, e le discussioni sui massimi sistemi. Scrive cose che nessuno gli ha richiesto sin dalla più tenera età. Twitter: @r_tallarita