Cos’hanno in comune giornalisti e gestori patrimoniali
Come immagino molti di voi già sanno, l’anno scorso Luca Sofri ha scritto un bel libro sulle pratiche giornalistiche sciatte e compromesse in Italia e altrove (Notizie che non lo erano, Rizzoli 2015). Nel leggerlo non ho potuto fare a meno di trovare somiglianze tra il giornalismo e l’operato di tante case di gestione.
Uno dei principali punti del libro è che i giornalisti da tempo sono diventati più pigri nello scandagliare le fonti e nell’assicurarsi che i fatti siano giusti. Il loro vero obiettivo oggi non è quello di informare i lettori ma di ottenere più “hit“, “like“, “views” sul web o qualsiasi altra statistica. Questo non è necessariamente un male a meno di non perdere nel frattempo le basi del buon giornalismo.
In modo analogo, come ho detto già in altre occasioni, l’obiettivo principale dei gestori patrimoniali di oggi è quello di accumulare masse gestite. Un elemento di questa strategia è la diffusione costante di informazioni relativamente inutili (se non addirittura imprecise). Tre esempi per illustrare il problema.
La crescita economica: a lungo termine (anni o decenni) è estremamente importante per gli investitori, ma nel breve periodo (trimestri o anni) è per lo più una distrazione. Eppure non c’è casa di investimenti importante che non pubblichi regolarmente le previsioni di crescita per i prossimi mesi e trimestri. Qual è l’utilità di queste informazioni dal punto di vista dei mercati? La correlazione storica (dati degli ultimi 100+ anni) tra crescita e rendimenti azionari è leggermente negativa. Alcuni dicono che questo è dovuto al fatto che le aspettative di crescita tendono ad essere incorporate nei prezzi di mercato; ma il punto è proprio questo: se i mercati si muovono prima dei dati ufficiali di crescita, perché perder tempo e risorse a prevederli?
Oppure prendiamo l’uso del rapporto prezzo/utili (price/earnings, o p/e) nel giudicare se i mercati e i singoli titoli sono cari o a buon mercato. Qui il problema non è tanto il concetto ma piuttosto come questo venga applicato. La maggior parte delle case di ricerca utilizzano un p/e dove la “e” sono i guadagni ottenuti l’anno precedente o quelli previsti per l’anno successivo. A parte il fatto che valutare una società o un’economia basandosi solo sui dati di un singolo anno è a dir poco surreale (che i dati siano quelli storici o previsioni non importa), semplici analisi econometriche dimostrano che un p/e cosi costruito non aiuta ad approssimare quanto le azioni potranno rendere nei susseguenti 5, 10 anni o in un qualsiasi ragionevole orizzonte temporale. Se invece utilizziamo una forma di “e” che sia stata normalizzata intorno al ciclo economico (come ad esempio i trend earnings oppure una semplice media mobile dei guadagni degli ultimi 10 anni), il risultato sarà molto più soddisfacente: alcune versioni produrranno un R2 di 0,50-0,70.
E, infine, l’analisi tecnica: è vero che alcuni anni fa il professore Andrew Lo del MIT dimostrò in uno studio che il comportamento condizionale dei prezzi (condizionale ad alcune “formazioni” o “patterns” comuni di analisi tecnica) non è puramente casuale, ma nel medesimo tempo lui stesso mise in dubbio l’utilità di quest’informazione una volta che i costi di transazione sono presi in considerazione. Eppure è quasi impossibile trovare una grande casa d’investimenti il cui gruppo di ricerca non abbia un professionista di analisi tecnica sul libro paga.
L’uso inappropriato di informazioni da parte dei giornalisti e dei gestori patrimoniali: chi avrebbe mai detto che queste professioni avessero così tanto in comune?
(Tradotto in italiano per il Post; l’originale in inglese è qui.)