La differenza tra i fondi beta intelligenti e stupidi
L’economista John Galbraith scrisse: «Il mondo della finanza declama l’invenzione della ruota più volte di seguito, spesso in una versione leggermente più instabile». Era un uomo molto perspicace.
Lasciamo da parte la questione dell’instabilità (ne abbiamo già abbastanza altrove) e concentriamoci sulla ruota. Potremmo ipotizzare che l’affermazione di Galbraith non sia più di attualità dopo un paio di decenni di intensi studi di mercato e sviluppi teorici. Ma ci sbaglieremmo di grosso perché l’industria del risparmio gestito, sotto la spinta di voler sempre creare qualcosa di nuovo, ci ha propinato recentemente una famiglia di veicoli d’investimento col nome generico di “beta intelligente” (“BI”; smart beta).
Questa innovazione apparente altro non è che una manovra di marketing ben congeniata. L’aspetto positivo del BI è quello di mettere a disposizione degli investitori alternative meno care e più liquide da usare nei loro portafogli. L’aspetto meno trasparente del BI è che in realtà non c’è nulla di nuovo sotto il cofano: trattasi per lo più di fondi gestiti attivamente con processi già noti e camuffati da ETF (exchange traded funds). Sono un modo per scontare le commissioni di gestione senza dover ammetterlo.
Prima di continuare, una chiarificazione. Non ci sono “beta intelligenti” o “beta stupidi.” Il beta è una componente di un’equazione nel campo degli investimenti ed è spesso usato come sinonimo di “rischio di mercato”. Matematicamente rappresenta la pendenza di una linea retta. Non si può quindi attribuire al beta la capacità di pensare né più e né meno di quanto non lo si possa fare con una padella o un carciofo.
Come si è arrivati ad affibbiare attributi mentali a un coefficiente? La popolarità e forte crescita degli investimenti passivi (gli ETF) hanno dato dei grossi grattacapi ai supermercati finanziari e alle reti di consulenti. Non è una sorpresa che questi a loro volta si sono sentiti in dovere di fare qualcosa per fermare l’emorragia di fondi. E così si sono inventati l’idea di apporre l’etichetta “stupido” (dumb) al beta normale associato agli ETF e, contemporaneamente, l’etichetta “intelligente” a quello delle loro creazioni. Col fatto che la parola beta appare nei due casi, i BI si sono trasfigurati in investimenti passivi per associazione.
Come si trasforma un beta da “stupido” a “intelligente”? Sostituendo le formule per replicare passivamente gli indici di mercato (che pesano le componenti usando la capitalizzazione) con dei processi attivi di gestione conosciuti già da tempo, in una forma o un’altra (che pesano le componenti usando altri parametri come il rapporto prezzo/guadagni, dividendi, ricavi annuali, e così via). Parenteticamente, questo rifiuto implicito dei benchmark tradizionali non sembra aver influenzato la pratica dei grandi portafogli istituzionali che continuano ad utilizzare i normali indici di mercato.
Quindi i gestori di BI sostengono di aver trovato un nuovo elisir per fare soldi quando tutto quello che hanno fatto è riorganizzare le scatole e cambiare l’etichetta. A dire il vero non c’è nulla di necessariamente malefico in tutto questo; basta, come sempre, assicurarsi di capire in che cosa si sta investendo e rendersi conto che in questi veicoli di passivo c’è ben poco.
(Tradotto in italiano per il Post, l’originale in inglese è qui)