Una risposta ai tweet di Salvini
Negli ultimi giorni, la mia presenza sui social media è in qualche modo esplosa. Tutto perché venerdì scorso ho risposto a un tweet di Matteo Salvini:
Il tweet è stato poi cancellato, ma la mia risposta è rimasta.
Non solo: ha girato parecchio, ritwittata moltissime volte, diffusa su Facebook (grazie soprattutto alla menzione di Enrico Mentana). Tantissime persone mi hanno scritto ringraziandomi per aver “resistito a Salvini” e qualcuno mi ha addirittura scritto che sono “un eroe” (come si dice dalle mie parti: non esageriamo). Ringrazio tutti per l’apprezzamento e i complimenti. Il mio lavoro si svolge per definizione nell’ombra: chi scrive fumetti e film, come me, lavora perché poi altri portino alla luce la sua storia. Tutti voi vedete un film e leggete un fumetto, non la mia sceneggiatura, ed è giusto così. Ma mi fa molto piacere vedere tanto amore per il fumetto Disney.
In ogni caso, tutta questa tempesta mediatica mi ha stupito parecchio.
Tutto perché ho scritto un tweet: ma soprattutto, perché Salvini lo ha cancellato.
Qualcuno ha scritto che ho “blastato” Salvini. Sinceramente, non era mia intenzione blastare nessuno. Ho semplicemente risposto a una frase poco felice che Salvini ha detto durante un talk show: “preferisco Topolino all’Espresso”. Con il solito sottinteso che Topolino è cosa da poco, quindi secondo Salvini l’Espresso fa così schifo che PERSINO Topolino è meglio. Una miope tendenza abbracciata spesso da Salvini, ma anche da altri politici: considerare Topolino “roba da bambini”, un magazine sempliciotto, scemo, “cultura bassa” o non-cultura. A parte che proprio la letteratura “per bambini” ha un pedigree culturale ormai ben più importante delle dichiarazioni di parecchi politici. Ma considerare Topolino e il fumetto non-cultura o cultura di serie B è ormai un luogo comune smentito da tutto: dal nostro lavoro, dal successo del fumetto Disney e non solo in libreria e nell’opinione pubblica, dalla realtà.
Quindi mi sono stancato di dover sentire cose simili. E ho risposto.
Quello che mi ha stupito, però, è la risposta pubblica al mio tweet. Perché è piaciuto tanto?
Io non volevo insultare Salvini: non mi interessa. E non voglio fare politica: non ne ho le capacità né gli strumenti. Ho le mie idee politiche, e anche molto chiare, ma non è questo il punto.
Quello che mi interessa – il mio lavoro, in senso lato – è la comunicazione. Anzi: il linguaggio. E qui la chiave è proprio il linguaggio. Non ho insultato Salvini perché non voglio farlo: perché l’insulto, l’attacco ad personam, lo sfottò violento, o anche l’argomentazione disinformata (come l’articolo di Libero di oggi, che non spiega che io lavoro per la Panini e non per la Disney, o che Walt Disney era un acclarato antifascista e antinazista, ma che soprattutto mi definisce “celebre”) è ormai la forma-base di tantissima comunicazione, soprattutto politica. Letteralmente è la prima cosa che leggi, la prima che ti viene in mente, la prima che scrivi: e in questa trappola ci sono cascato anch’io, parecchie volte. Ma nel mio lavoro c’è una regola molto chiara: la prima idea che ti viene in mente, di solito, fa schifo. Perché ci sono già arrivati tutti, e tu la stai ricevendo già rimasticata, riutilizzata fino alla morte, svuotata. Insomma: inutile e non originale. Un’altra regola del mio lavoro è: se lo fanno tutti, tu cerca di fare qualcosa di diverso. Renditi originale. Così ho scritto un tweet senza insulti, dicendo una cosa che penso davvero: se Salvini leggesse davvero Topolino, ci troverebbe dei valori importanti, che sono i miei.
Non so perché Salvini abbia cancellato il suo tweet, e non è questo il punto. Il punto è che ho proposto una cosa senza insultare e senza usare scorciatoie comunicative. Quelle che tutti noi abbiamo usato fin troppo, negli ultimi anni. Gli insulti. I soprannomi. Le prese in giro per l’aspetto fisico. Le riduzioni a frase fatta: fascista, comunista eccetera, fino a svuotarle di significato. L’”allora il PD?” o l’”allora qualunque altro partito”. L’urlo in caps lock. Capitoni, Psiconani, vecchie puttane, Renzie, zecche.
Tutto questo ha funzionato? Sicuramente sì, ma solo per una certa parte politica: e per loro, è stato un successone. Ora, per chiunque voglia fare opposizione a quella certa parte politica, si pone il problema: come reagire a tutto questo? Usando le stesse armi? Inutile: un’altra regola del mio lavoro è che se c’è già qualcuno a fare una certa cosa, è inutile scimmiottarlo, perché quel qualcuno, quella cosa, la fa già molto meglio di te: e chi vorrebbe una copia in tono minore dell’originale, una sottomarca?
No, bisogna essere diversi. È ora di essere diversi. Scriverei “migliori”, ma verrei subito tacciato di elitarismo (che vorrebbe poi semplicemente dire: tifare per chi è più bravo di te a fare un certo lavoro, e volere che fosse lui a farlo). No, diciamo “diversi”.
Diversi nel comunicare. Perché dire le cose in quell’altro modo, tra caps lock e urla, è facile.
Perché il linguaggio è il pensiero, e se noi iniziamo a dire meglio quello che pensiamo, a scriverlo meglio, stiamo pensando meglio. Il che evidentemente funziona, perché toglie le armi al tuo avversario, che toglie i tweet. Invece di demonizzarlo (vent’anni di Berlusconi hanno mostrato chiaramente che è inutile) o di usare le sue armi, usiamo le nostre. Anzi: ho sbagliato anche a usare la parola “armi”. Sono strumenti. Utensili. Attrezzi di comunicazione. Se dici “attrezzi”, stai pensando di costruire o riparare qualcosa: se usi “armi”, hai tutt’altro in mente. E con quegli attrezzi puoi fare. Fare qualcosa di diverso, di utile. Altri continueranno a urlare, ma tu starai lavorando: il rumore dei tuoi attrezzi renderà più lontano l’urlo, e tu sarai già occupato a costruire qualcosa. Non è il momento dell’invettiva: ce ne sono state fin troppe e non mi sembra abbiano portato a grandi trionfi. Sicuramente a me non servono. Portiamo la comunicazione da un’altra parte. Così, forse, si inizierà davvero a parlare d’altro: di cose da aggiustare e problemi da risolvere. Se butti via un po’ di retorica, di urlo, di incazzatura, di rancore, restano sul campo un sacco di cose da aggiustare. È “buonismo”, altra parola abusata, svuotata e resa inutile? No: è un’ammissione pragmatica. Il nostro discorso pubblico mi sembra un enorme magazzino pieno di macchinari inceppati: ferraglia che fa un gran rumore, un frastuono continuo che impedisce di capire cosa c’è sotto: e cioè un bel po’ di cose da mettere a posto. Proviamo a togliere la ferraglia linguistica e comunicativa che ci assorda: scriviamo, twittiamo, postiamo, ma iniziamo a farlo in modo diverso.
Una regola può essere: se lo fanno gli altri, io non lo faccio.