Cosa mi ha insegnato Kiarostami
In un solo weekend, Michael Cimino e Abbas Kiarostami. Ormai la lamentazione sulla quantità abnorme di morti famosi del 2016 è quasi un meme, e naturalmente la trappola del «Vai a insegnare agli angeli…», che Zerocalcare sfotte benissimo in una striscia ormai famosa, è sempre in agguato. Anche perché la nostra conoscenza della persona famosa che se n’è andata, per forza di cose, passa attraverso le opere, l’immagine, la personalità pubblica della persona in questione. Insomma, è molto, molto, molto difficile che qualcuno di noi avesse una conoscenza privata di David Bowie o Prince, a meno di non essere a) molto, molto, molto ben connesso, b) un mitomane o c) Gianni Minà. Questa volta, invece, la morte di Kiarostami mi tocca un pochino più da vicino.
Perché Kiarostami l’ho conosciuto davvero.
Nel 2003 avevo appena iniziato a collaborare con Topolino, ma facevo anche lo stagista copywriter in una piccola agenzia di pubblicità di Torino, con un unico, grande obiettivo: sopravvivere quel tanto che bastava a non fare più il copywriter in una piccola agenzia di pubblicità di Torino. Intendiamoci: era un bel posto, i colleghi erano ottimi e alla fine ho imparato parecchio. Ma tra la supervisione di un catalogo di maniglie e una storia di Pippo, o tra un calendario di un grossista di computer e un film, avevo già perfettamente chiaro cosa volevo fare. Per cui, quando la Scuola Holden lanciò un workshop di regia di una settimana con Abbas Kiarostami, mi iscrissi subito, e venni scelto. Ottenni il permesso dal mio capo all’agenzia («Arrivo subito, eh! Vado solo a fare una roba che mi interessa di più, poi vediamo!» Che stagista orrendo che ero.)
Kiarostami.
Ammettiamolo. Non era il genere di regista in cima alle mie liste.
Avevo visto 10 e Sotto gli Ulivi, ma ammetto che sono più un tipo da Woody Allen. Da Spielberg. Da Terry Gilliam. Da Cameron Crowe.
Ma ero curioso. E volevo, allora come oggi, fare film.
Però finii in un gruppo interessante, in cui c’erano, ad esempio (e qui la memoria inizia a ingarbugliarsi: mi scuso con gli altri partecipanti. Anzi, commentate qui che ci ritroviamo), Luca Blengino, che oggi è un affermato autore di fumetti e libri per ragazzi; o i fratelli De Serio. Il workshop consisteva in alcune lezioni con Kiarostami, coadiuvato da un interprete, e degli esercizi pratici: l’idea era di realizzare alcuni piccoli corti con un budget inesistente, ma con lo stile produttivo e le intenzioni artistiche di Kiarostami.
Ammetto che mi sentivo un po’ un pesce fuor d’acqua. Tutti si lanciavano in grandi storie drammatiche, in momenti da cinema d’autore, da girare sulle scale della vecchia, storica sede della Holden in Via Dante oppure per strada. Io, invece, con l’eleganza e il senso dell’opportunità di un T-Rex in un monomarca Svarowski, decisi di scrivere e girare una commedia. Una cosa breve e scema in cui un tizio fa una romanticissima dichiarazione d’amore a una ragazza al balcone, solo per scoprire che ha sbagliato indirizzo e sta dichiarandosi alla tipa sbagliata, al balcone sbagliato.
Kiarostami passava da un gruppo all’altro, aiutando i vari registi. Parlava solo in farsi, con un tono di voce bassissimo, e portava sempre gli occhiali da sole. Un po’ mi veniva da sfotterlo, perché ero e sono un ignorante e un buzzurro. Poi, però, lui venne a vedere le mie riprese. Io stavo girando un primo piano sulla ragazza al balcone. Quindi, la macchina da presa era piazzata per strada e guardava su, al balcone. Io ero tutto concentrato a guardare la ragazza e lo stramaledetto balcone, faticosamente ottenuto a colpi di per favore dal legittimo proprietario: era lì che stavo raccontando la mia storia, era lì il mio universo narrativo.
Kiarostami, invece, mi fece notare che non c’era un solo balcone. Ce n’erano tanti, in quel palazzo. E naturalmente, qualche inquilino di quei balconi era uscito a vedere cosa stavamo facendo. Un paio di vecchiette in grembiule, calze flosce e pantofole. Un vecchietto con gli occhiali. Il portinaio del palazzo. Persino due bambini piccoli coi nonni.
Kiarostami mi fece notare che potevo – anzi, dovevo – riprendere anche loro. Che esistevano anche loro. E che davano un tocco di realtà, un sapore diverso. Entravano nella mia rigida e un po’ artefatta struttura narrativa da barzellettaccia o da gag hollywoodiana, e le davano vita. Staccando dai due protagonisti a loro, anche un film piccolo e scemo come quello prendeva vita e diventava qualcosa di diverso.
Puntai subito la macchina da presa sui vecchietti, sui bambini piccoli e sul portinaio.
In quel momento capii una cosa fondamentale: che per quanta struttura diamo a una storia – e la struttura ci vuole, intendiamoci – bisogna sempre tenere d’occhio la vita che c’è intorno. Intorno alla storia ma anche intorno al film. Io tendo ad andare sul set con dei piani ben chiari: ho i miei storyboard, che mi disegno a mano, e preparo tutto molto in anticipo. Però, da quel quel giorno, tengo sempre la porta aperta. Mi guardo intorno, prima di una ripresa. Tengo d’occhio quello che succede intorno a me, sul set e nell’obiettivo della macchina da presa. Perché so che ci sarà sempre un dettaglio inaspettato, un momento imprevisto, un minuscolo colpo di scena, o semplicemente un altro punto di vista. Che anche nella storia più strutturata e classica la realtà percolerà ed entrerà, come l’acqua in una roccia. O spaccherà tutto, oppure colorerà quello che c’è già. In ogni caso, è meglio che l’acqua entri, che passi, che porti qualcosa di vero, di nuovo.
Quella cosa me l’ha insegnata Kiarostami. A Luca ha insegnato altro, come ha scritto su Facebook. E penso che abbia insegnato qualcosa di diverso a tutti i partecipanti a quel workshop.
Appena finì quella settimana, tornai all’agenzia di pubblicità di Torino.
Ma non per molto. Avevo troppe cose da fare, troppi film da vedere, troppe storie da scrivere.
La realtà era più importante.
Me l’ha insegnato Kiarostami.