Mi fido di te, creativo
#coglioneno o #coglionesì? Enrico Sola mi ha brillantemente preceduto sulla questione, chiarendo alcuni punti importanti: in sintesi, il lavoro creativo è difficilmente quantificabile; la nostra cultura identifica erroneamente il lavoro con la sola “fatica” (in quanto piemontese, so quanto questo concetto sia sentito; in quanto sceneggiatore, il mio lavoro è faticoso, ma lo amo, quindi non è mai una fatica, anzi); infine, il mondo industriale italiano è impreparato a questo tipo di lavoro. Molto d’accordo su tutti e tre i punti. Vorrei però aggiungere qualche altra idea e, forse, una possibile soluzione.
È vero: il lavoro creativo non è quantificabile. So per esperienza che il tempo dedicato a un lavoro creativo non è un indicatore della sua qualità. Detta grezzamente: posso arrabattarmi per otto ore a cercare un’idea per una storia di Topolino senza il minimo successo. Salvo poi trovare quella stessa idea in cinque minuti netti, magari a cena o in metrò. Quei cinque minuti, però, sono il prodotto di un’intera vita.
Quando un’azienda paga un creativo, non paga cinque minuti: paga la sua intera vita. Perché se un vero creativo è stato influenzato, plasmato, trasformato da quello che ha letto, visto, vissuto. Anni di film, videogiochi, fumetti, libri, serie TV, pubblicità, viaggi all’estero, esperienze, corsi, workshop. Quei cinque minuti sono il prodotto inconfondibile di quella persona e della sua esperienza, perché solo quella persona potrà offrirvi quei cinque minuti. Quella vita, quelle esperienze hanno un loro peso, perché rendono quel creativo diverso da tutti gli altri. Per questo non c’è vera concorrenza tra creativi: non andate da Spielberg chiedendogli di fare il Sorrentino, o viceversa. Quindi, care aziende, state pagando qualcosa di unico.
Unico? Davvero? Eppure, direte, di creativi ce ne sono tanti. Troppi, dico io.
Perché per ogni creativo che lavora e produce davvero ce ne sono tanti che DICONO di essere creativi. A cui piace FARE i creativi, più che esserlo. E da qui parte tutto un immaginario di hipster/studenti DAMS/alternativi che in effetti non rende un buon servizio alla causa della creatività. L’università italiana produce troppi creativi o presunti tali in nome di una falsa concezione dell’uguaglianza. Se puoi sognarlo, puoi farlo. Sì, ma se non ce la fai, non puoi farlo. Chi lavora, calvinisticamente, ce l’ha fatta. È vero: tutti possono e devono avere la possibilità di provarci. Ma bisogna anche rendersi conto che non tutti ce la faranno.
(A nove anni volevo tanto fare il calciatore, perché guardavo Holly e Benji. Al primo allenamento ho capito una brutale, terribile, ma liberatoria verità: ero una pippa assoluta. Poi, grazie al cielo, ho trovato un’altra strada)
Perché quelli che ce la fanno hanno un mix di talento, originalità e soprattutto tignosa pertinacia che sfugge a molti altri. Non hanno una sola idea: ne hanno tante, tantissime. Non scrivono un giorno sì e dieci no, aspettando l’ispirazione: scrivono tutti i giorni. Fanno quel lavoro non perché fa figo o perché sia alla moda, ma perché non riescono – letteralmente – a fare altro. Non potrebbero mai fare altro. Non si fermeranno finché non faranno quel lavoro, e non lo faranno meglio di chiunque altro. Non fanno quel lavoro per andare alla festa alla moda: stanno a casa a lavorare perché amano quel lavoro, SONO quel lavoro.
Questi sono i creativi che ce la faranno.
Ma questa è solo una parte della questione. Chi ce la fa ha talento, chiaramente. Ma è anche professionale. Il “creativo” ha una pessima fama anche perché spesso consegna il lavoro in ritardo, o mai. Perché spesso non capisce le esigenze, pragmatiche e noiose ma fondamentali, dei suoi clienti. Perché pensa che un lavoro formalmente pessimo basti a giustificarlo. Perché in nome della sua creatività, vera o presunta, passa sopra al fatto che è parte di un sistema, nel quale la sua professionalità lo definisce.
Se sei bravo ma non consegni in tempo, non sei un professionista.
Se sei bravo e consegni in tempo, sei un professionista.
Se poi riesci anche a mantenere un rapporto personale, oltre che di lavoro, con chi ti paga, allora è il massimo. Troppi “creativi” si sentono in diritto di mandare a quel paese il loro committente, arrivare in ritardo, fare errori di ortografia (se scrivono), fregarsene della forma.
Perché loro sono “artisti” (altro termine abusatissimo).
E invece no. Non sono artisti, non siamo “artisti”. Siamo gente che produce un contenuto. Se poi questo contenuto sarà così meraviglioso da resistere agli anni e alle critiche, allora qualcun altro lo definirà arte e chiamerà noi artisti. Ma non sta a noi dirlo. Mai.
Insomma: talento, professionalità, rispetto.
E non lo dico io: pare l’abbia detto Neil Gaiman.
Ora, però, un mea culpa. Nella mia carriera sono stato poco ispirato, poco professionale o poco gentile. Ho consegnato lavori in ritardo: anzi, lo sto ancora facendo. E in alcuni casi sono stato maleducato, per timidezza o paura di non farcela (ma non sono giustificazioni. Quindi mi scuso con gli interessati).
Insomma, noi creativi possiamo comportarci meglio. Ma anche le aziende possono migliorare.
Possono lasciarci fare. Fidarsi. Lasciarci tentare la soluzione più strana, più apparentemente assurda. Più nuova, quindi potenzialmente più dirompente. E quindi più redditizia.
Capisco il terrore delle aziende. Danno soldi a uno che lavora immaterialmente, può trovare un’idea geniale in cinque minuti o nulla in otto giorni e che a volte sembra fare cose “che anche un bambino”, come dice Enrico. Capisco la loro paura, perché loro, su quella campagna, su quel fumetto, su quel libro, stanno investendo soldi veri. E sappiamo tutti che sarebbe più redditizio e sicuro comprare un appartamento in centro.
Ma il modo migliore di far fruttare i soldi investiti in creatività è: lasciar lavorare i creativi.
Perché nessun creativo trova grandi idee se ha il fiato del committente sul collo (o se il direttore della sua agenzia sta sulla porta ad ascoltare se sta battendo sulla tastiera, come da leggenda metropolitana dei copywriter). O se il committente s’impiccia nel suo lavoro perché “tanto so farlo anch’io”. No, caro committente: non sai farlo anche tu. Perché non hai la mia esperienza, per dire. Perché io non vado a occuparmi della tua contabilità, so di non essere in grado di lavorarci. Un creativo, se è un creativo vero, va lasciato libero. Ma il creativo vero sa anche che ha dei tempi e delle consegne da rispettare. Conosce il sistema in cui lavora e sa rispettare le esigenze del committente.
Insomma: il committente dovrebbe dire: “Sai cosa fare. Ci vediamo il giorno della consegna. Mi fido di te”.
E il creativo dovrebbe dire: “So cosa ti serve. Lo avrai il giorno della consegna. Puoi fidarti di me”.
Ecco, se riusciremo a usare queste parole e a mantenere queste promesse, saremo sulla buona strada.
Ora scusate, ma devo consegnare una cosa che ho scritto.
E sono in ritardo.