Gli altri modi di scuoiare un gatto (Seconda parte)
La prima parte la trovate qui
Settembre 2009
Insomma, adesso che il film si fa, bisogna mettere insieme il cast. E mentre si riscrive sempre più convulsamente man mano che ci avviciniamo al 16 settembre, giorno di inizio delle riprese, io e Radek scorrazziamo per Varsavia, a incontrare attori e attrici. Lucyna Malec, alias Izabela, recita in un teatro impronunciabile e Radek deve incontrarla dopo lo spettacolo, una commedia americana degli anni Trenta. Tradotta in polacco. Il teatro è piccolo, per cui gli attori ci vedono. E si saranno chiesti chi fosse quel tizio in seconda fila che non ha riso nemmeno una volta in tutto lo spettacolo, a parte qualche convulso, patetico tentativo. Be’, quel tizio ero io: non ridevo perché, in mezzo a un centinaio di persone che si sganasciavano, capivo solo “tak”, “kohanie” e “pani”. E cioè “sì”, “signore” e “caro”. Capirete che trovare un senso comico in queste tre parole era un problema. Però dopo lo spettacolo Lucyna ci porta dietro le quinte e lei e la sua compagnia ci offrono vino e formaggi. Io verso il vino sul maglione di Radek, ma ormai sono catalogato come l’Italiano Strano Che Inspiegabilmente Ha Scritto il Film Pur Non Parlando Una Parola Di Polacco A Parte Tak Kohanie e Pani, per cui nessuno ci fa caso più di tanto. E allora mi metto a guardare Polonia-Squadra Europea Imprecisata, qualificazioni mondiali, con l’attore giovane della compagnia. Fatto sta che Lucyna accetta e abbiamo Izabela!
Poi tocca ad Agata Buzek, alias Ania, bella e glaciale nonché figlia di Jerzy Buzek, che ci raggiunge in un pub di Varsavia un sabato pomeriggio. Radek parla con lei e le spiega la parte in polacco. Io riscrivo il film, o mi occupo degli affaracci miei: ho partorito una quantità impressionante di storie di Ciccio sul suolo polacco. Piano piano, il cast c’è e la troupe pure: si va a vedere le location!
Il tech recce
Come direbbe Fantozzi, dicesi tech recce il sopralluogo tecnico. In poche parole, regista e troupe vanno sul set e vedono se ci sono cose da spostare, cambiare, modificare o abbattere, prima di girare. A questo punto ci siamo io, Radek, Czarek, il direttore della fotografia Til Vielrose e vari altri – polacchi e tedeschi – più il sottoscritto eroico italiano. Il clima oscilla tra il nervoso e l’esaltato, ogni cinque minuti. Facciamo un film? Sì, però abbiamo pochi soldi e poco tempo! Sì, ma facciamo un film!
Imparo a conoscere le autostrade tristi della Germania Est e le stradine sperdute della Polonia, tra campi di grano e i boschi dove i cervi non si fanno neanche lo scrupolo di scappare quando passano le macchine. Le città polacche e quelle della Germania Est oscillano ancora tra bruttezze da socialismo reale, malinconie metalmeccaniche di capannoni abbandonati e un futuro colorato e convulso di poster, multisale e detersivi capitalisti. Allo stesso tempo, c’è uno sprint diverso, nella gente. Ventenni e trentenni vivono ancora in appartamenti piccoli e tristi dell’epoca di Jaruzelski, ma si connettono, mettono su case di produzione, viaggiano, ci provano. Hanno un’ansia di cambiare, di trasformarsi, che noi in Italia non abbiamo e non vogliamo avere, intrinsecamente incollati al passato e al provincialismo come siamo.
Comunque: prima tappa, Zachodniopomorskie (nel Voivodato della Pomerania Occidentale. Come toponimo, batte “Gallarate” any day. Voglio vivere in un Voivodato.) il paese che diventerà Kapustkowo. Il nostro paesino inventato. Radek viene convocato all’asilo del paese: la gente del posto vuole sapere che razza di film gireremo. Hanno già avuto una pessima esperienza con una troupe cinematografica, in passato (pare che fosse, orrore! un film pieno di violenza e sesso) e non si fidano. Infatti quando arriviamo il sindaco e soprattutto il prete del paese ci tengono d’occhio, insieme a parecchi bambini, ai loro genitori e a varie aspiranti comparse. È come un film di Peppone e Don Camillo, ma qui sono dalla stessa parte. E le nostre macchine con la targa tedesca non aiutano: siamo in Pomerania, regione contesa e passata più volte di mano tra tedeschi e polacchi, per cui c’è un po’ di tensione con i primi. Ma Radek parte con la sua charm offensive, ammorbidendo le mamme dei bambini. E io non riesco a trattenermi dal fare qualche disegno. Intendiamoci: sono uno sceneggiatore di fumetti, non un disegnatore. Però ho un pochino di basi di cartooning. E disegno da quando sono nato. Insomma, come molti sceneggiatori di fumetti, sono un disegnatore fallito. Ma so quel tanto che basta per disegnare topi e paperi, facendo contenti i bambini dell’asilo di Zachodniopomorskie e, forse, tutto il Voivodato. Adoro disegnare per loro, perché sono un tremendo show-off, o come si dice tecnicamente, uno sborone. E loro apprezzano. Czarek mi traduce le loro richieste e scopro che Scooby Doo in polacco si dice “Scubiego”. Disegno anche Scubiego. La vera faticaccia è scrivere giusti tutti i loro nomi. Una trentina di disegni dopo, il Voivodato è nostro!
La seconda tappa è Peenemünde, per le scene sul mare. Peenemünde è un posto bellissimo sul Mar Baltico: spiagge lunghe e bianche dopo le foreste di pini, il mare piatto e calmo. Il problema è che a Peenemünde i nazisti hanno sperimentato la V2, e c’è persino un piccolo, inquietante museo al riguardo. Sulla spiaggia c’è un avviso, in un tedesco che rende il tutto ancora più inquietante: se trovate robe strane, ecco, non toccatele, perché potrebbero essere pezzi di V2 e forse potrebbero essere radioattivi. Ah, be’, allora.
Però la spiaggia è molto bella e io faccio da controfigura per Til, che studia inquadrature e luce. Prendiamo il traghetto per il nostro bed&breakfast, che è di nuovo in Polonia: un pub riadattato che alle undici di sera, quando arriviamo, ci fa solo del borscht. Ce lo pappiamo e poi tutti a dormire, o meglio, a parlare della sceneggiatura, perché ci sono ancora cose da risolvere. Radek, Czarek ed io siamo stanchi e nervosi: ma soprattutto ci rendiamo conto di una cosa fondamentale. Scrivere una sceneggiatura è soprattutto un lavoro di riscrittura. Scrivi una prima stesura orrenda e poi riscrivi, riscrivi, riscrivi: per migliorare struttura e personaggi, per venire incontro ad attori e produttori, per risolvere problemi dell’ultimo momento. Più riscrivi, più la sceneggiatura migliora. Allo stesso tempo, dopo tre anni e quattordici stesure (il che è anche normale, per questo tipo di film), arrivi a un punto in cui hai dato tutto quello che potevi dare. Se tocchi ancora un po’ quella sceneggiatura, non farai altro che peggiorarla. Quindi, ci arrendiamo. Abbiamo fatto tutto quello che abbiamo potuto. Ora tocca al regista.
Ultima tappa del tech recce: Pritzwalk, paesino del Brandeburgo dove i location manager hanno trovato la fattoria che adatteremo in stile polacco (non che ci siano grandi differenze) e dove gireremo il grosso del film. Appena arriviamo, nelle strade semivuote e ordinate, passa un camioncino della NPD, simpatico partito quasineonazista, con slogan tipo “Raus Quasi Tutti”. Radek (polacco trapiantato in Germania), Fabian (mezzo algerino e mezzo tedesco) e io (piemontese trapiantato a Milano) siamo ufficialmente terroni, quindi facciamo finta di niente. La fattoria, invece, è molto carina. La scenografa Graziella Tomasi, che di italiano ha solo il nome, sta già preparando i set: un granaio viene diviso in micro-ambienti più piccoli, mentre un piccolo esercito di aiutanti e attrezzisti dipinge porte, smonta mobili, appende ai muri foto finte di Zamachowski da piccolo.
È bellissimo vedere il tuo lavoro che cambia fisicamente il mondo, mobilita questo piccolo esercito, trasforma la realtà. Tutto orgoglioso, trovo una connessione per sapere cosa succede fuori da Pritzwalk.
“No! È morto Mike Bongiorno!”
Tutta la troupe mi guarda smarrita.
“Chi?”
“Er, he was a famous talk show host who…”
Tutti mi guardano smarriti.
(Superflash? Allegria? Signora Longari? Mi rendo conto che spiegare l’Italia è difficile. Non parliamo di quando mi chiedono cose di politica. Come fai a spiegare, in inglese e in termini logici, l’esistenza di Mastella?)
Mi stabilisco negli uffici della produzione, poco lontano dalla fattoria. Sul call-sheet c’è il mio nome: Roberto Gagnor, Drehbuchautor. Sceneggiatore. Sarà una piccola e meschina soddisfazione, ma è da quando avevo 18 anni che sogno una cosa così.
Il giorno dopo, torno in Italia. Una delle cose migliori che può fare uno sceneggiatore, quando si gira, è stare fuori dai piedi. Non deve andare lì a disturbare il regista (e io mi fido ciecamente di Radek e Czarek). Non deve far perdere tempo alla troupe: ma se ha fatto bene il suo lavoro, la troupe avrà meno problemi. Per cui, riparto.
Ottobre 2009
Dopo sei settimane di tentativi falliti di chiamare Radek, finalmente mi risponde. È rauco e lo conosco troppo bene per non notare che è completamente esausto.
“We did it. We shot it all. I hope it works”.
(fine seconda parte)