Il futuro del giornalismo? Lo scopriremo forse seguendo @tigella che va a Chicago
Ogni tanto (noi giornalisti) ci chiediamo che fine farà il giornalismo nell’era di Internet. Il giornalismo, non i giornali, perché i giornali di carta, sono tutti d’accordo, hanno gli anni contati. Dieci, venti? Non so, ma so che un bambino che nascesse oggi difficilmente quando sarà grande ogni mattina frequenterà luoghi fisici chiamati edicole per comprare oggetti di carta e inchiostro. Difficilmente dico, cercando di fare una previsione ottimistica.
La questione comunque è aperta ed è molto legata alla qualità delle nostre democrazie evidentemente. E quindi è importante per tutti. In questi giorni alcuni allievi del master in giornalismo Walter Tobagi stanno chiedendo “che fine farà il giornalismo” a un gruppo di firme famose: il progetto si chiama #faremonotizia e il cancelletto indica già il fatto che una traccia per la risposta è seguire quello che sta accadendo su Twitter. Non solo perché qui ci sono ormai tantissimi giornalisti (e quasi tutti i più importanti), ma perché su Twitter c’è tanto giornalismo. Si tratta di giornalismo in parte prodotto da giornalisti in forme nuove, oserei dire, non regolate contrattualmente; in parte fatto da altri, i famosi “citizens journalist”, dai quali spesso noi “giornalisti col tesserino” abbiamo moltissimo da imparare non solo in quanto a potenzialità del mezzo-Twitter, ma in quanto a comprensione del senso vero della rete.
Un mese fa ad un dibattito organizzato dalla Federazione Esperti di Relazioni Pubbliche (la FERPI), su “la lobby al tempo di Twitter”, mi è capitato di incontrare uno dei capi di uno dei grandi gruppi editoriali italiani e di chiedergli che atteggiamento avessero loro rispetto a Twitter. Ovvero: potevano imporre ai cronisti di usarlo quale fonte di informazione? E potevano pretendere che i loro giornalisti di punta, il direttore, gli editorialisti e gli inviati, si aprissero un account e lo usassero con continuità per postare notizie e commenti costruendosi una base di followers? E ancora: potevano esercitare un controllo sui contenuti twittati, sia dal giornalista-star che dal cronista che si fosse aperto un account per dare notizie o anche solo per esprimere “opinioni non autorizzate”? La risposta in tutti i casi fu un no: sì certo era un tema importante, mi disse, ma la sensazione che ebbi era che la cosa era appena esplosa, Twitter in Italia intendo, e non avevano ancora preso le misure.
Ora le stanno prendendo, in tutto il mondo. Sky News, per esempio, ha deciso di limitare ai suoi giornalisti la possibilità di ritwittare le notizia di un altro giornale e di divulgare una breaking-news prima su Twitter. La cosa ha provocato naturalmente un ampio di dibattito – naturalmente via Twitter – anche perché a SkyNews lavora uno dei più bravi social media editor in circolazione, Neil Mann che si è segnalato per i tweet della primavera araba. Ora: aveva senso che Mann non twittasse prima degli altri quello che sapeva e vedeva, per esempio quando era inviato in Libia, per privilegiare la testata per cui lavora? Forse sì, forse no. Sicuramente oggi @fieldproducer non avrebbe oltre 40mila follower e la fama che ha, se lo avesse fatto.
Come finirà questa contesa sulle regole non può dirlo nessuno. Ma questo è solo un aspetto del problema: lo potremmo chiamare “come il Giornalismo si adatta a Twitter”. L’altro aspetto non è meno importante: si tratta di capire come Twitter, cioé chi usa Twitter senza essere un giornalista, modifichi il giornalismo tradizionale. La faccia sembrare vecchissimo.
In quel dibattito di un mese fa, quello dove il grande editore mi disse di non avere risposte sulle regole, tra gli ospiti c’era anche Claudia Vago che su Twitter tutti conoscono come @tigella. Claudia Vago ha 33 anni, nella vita lavora per la regione Emilia Romagna, cioé si occupa dei contenuti sul web legati al turismo. Ma assieme a questo impiego, nei mesi scorsi Claudia Vago si è rivelata una eccellente utilizzatrice di Twitter: sulle rivolte arabe è stata una delle più brave in assoluto ad andare a cercare le notizie, ovvero i tweet più interessanti, verificare le fonti, tradurli e rimetterli in rete per tutti. Ripeto: cercare notizie, verificare le fonti, riscrivere per un pubblico. Che lavoro è questo se non giornalismo? O meglio, una parte di quello che dovrebbe essere il giornalismo nell’anno del signore 2012? Me lo chiedo e giro la domanda agli allievi del master che ci chiedono come cambierà questo mestiere.
Ma non è finita qui. Claudia oltre alle rivolte arabe ha fatto una serie di altre cose notevoli usando Twitter: per esempio alla fine dello scorso anno, assieme ad altri, ha varato un bel progetto che raccoglieva i migliori tweet per i grandi eventi del 2011, affinché non andassero perduti (#ayearinhashtag, ne parlammo anche qui). Insomma, si è ritagliata una sua credibilità. Ha conquistato la fiducia di un suo pubblico. E ora prova a battere una strada su cui finora hanno fallito tutti: a farsi finanziare dai suoi “lettori” per seguire un evento non solo per loro ma per tutti. L’evento è grosso: l’occupazione per tutto il mese di maggio della città di Chicago dove si terrano sia il G8 che il vertice NATO. La notizia è stata lanciata da Adbusters, il collettivo canadese che lanciò Occupy Wall Street, e quindi ci sono davvero molte probabilità che lì, a Chicago, possa accadere qualcosa di storico. Così Claudia ha deciso di provare ad andare a vedere di persona: per raccontarlo su Twitter. Si è fatta due conti e ha stilato un preventivo preciso, voce per voce: per stare lì un mese le servono 2600 euro. E li ha chiesti alla rete. Ha aperto un profilo sul sito www.produzionidalbasso.it e ha messo in vendita quote di 10 dollari. Ora, una delle cose che si dice sempre è che la gente non è disposta a pagare per avere informazioni online, che la rete è il regno del tutto gratis. Non a caso un esperimento di giornalismo finanziato dal basso (“Spot Us”) un paio di anni fa è silenziosamente fallito.
E invece nel giro di un paio di giorni @tigella ha raccolto 1.160 euro (fino a venerdì 10 febbraio, ndr): sono tante centosedici quote per mandare una non-giornalista a raccontare un evento planetario. Sono lettori che hanno scelto di pagare non un giornale la mattina, ma il modo di vedere le cose, di lavorare e di raccontarle su Twitter di una persona precisa che si è meritata la fiducia degli altri. Sono la prova che questo mestiere sta davvero cambiando in maniera radicale. E se facciamo i giornalisti dobbiamo sbrigarci a capirlo. Se invece siete solo lettori, beh, preparatevi a finanziare il reportage del vostro inviato preferito.
(post scritto per Repubblica Sera riproposto qui per gentile concessione)