La rivoluzione di Ilaria Capua: “Ricercatori, muovetevi! In Italia si può”

Questa mattina a Filadelfia Ilaria Capua riceve Il Penn Vet Leadership Award: 100 mila dollari ed il prestigio di un premio che è forse il massimo nel suo settore. Conosco Ilaria da qualche anno. E’ stata ospite in diverse tappe di Working Capital e oltre alla sua storia mi aveva colpito la passione per il futuro, la determinazione nel realizzare i suoi sogni nonostante l’Italia. Nonostante l’Italia. Ecco, è questo il punto. Il successo mondiale di una scienziata come la Capua dimostra ancora una volta che anche da noi è possibile fare cose belle e importanti. E’ più difficile, certo, ma possibile. Ieri ho avuto l’opportunità di raccontare chi è Ilaria Capua ai lettori di Repubblica. Qui il resoconto più articolato del nostro ultimo scambio di domande e risposte. Ve lo riporto, nella sua informalità, perché ritengo che lei sia un possibile modello per la nuova Italia.

Cosa dirai quando ti consegneranno il premio? Ci hai pensato?
Sì, parlerò di dogmi infranti. E lo farò citando un masterpiece della letteratura.
Quale?
I libri del Doctor Seuss.
Doctor chi?
Doctor Seuss! Non lo conosci davvero? Tutti i bambini americani sono cresciuti con questi libri anni 60. Ma davvero non hai mai sentito parlare di The Cat in the Hat?
No, ma mentre parli lo stavo cercando su google. A un primo sguardo mi pare l’Harry Potter di allora.
Sì anche se Doctor Seuss è più filastrocche e non sense.
Che c’entrano con un premio così importante?
Servono a non prendermi troppo sul serio, a non andare lì e dire: guardate quanto sono brava.
Epperò lo sei brava: la motivazione del premio è pesante.
Sì. E’ un premio per la leadership. E me lo danno per aver dramatically cambiato l’immagine e il senso della professione.
Tu sei solo un veterinario, in fondo.
Sì, ma non curo cani e gatti. Sono una scienziata.
Qualche mese fa a Torino, all’apertura del Tour del Mille, ti sei presentata dicendo: “Sono una scienziata made in Italy”.
Sì perché sono nata a Roma, laureata a Perugia, e ho fatto tutta la mia carriera in Italia.
Da una dozzina di anni guidi un dipartimento dell’Istituto Zooprofilattico…
Sperimentale delle Venezie: che nome terribile, vero? Io lo dico sempre che dovremmo cambiarlo. Nessuno sa ripeterlo correttamente.
Eppure dai vostri laboratori, avete cambiato il mondo: a Legnaro, in provincia di Padova si può dire che sia nata la scienza opensource.
Cominciamo con il dire che il mio Istituto non è un centro privato, ma un pezzetto del vituperato Servizio Sanitario Pubblico.
Perché è importante dirlo?
Perché non è vero che non si possono realizzare cose importanti in Italia, e non è vero che non si possano fare con i limiti delle strutture pubbliche. Io ce l’ho fatta. Tutti possono farcela.
La tua storia e le tue imprese ormai le conosco, ma proviamo a ripercorrerle così non faccio errori quando le scrivo. Cominciamo dall’aviaria.
Ci sono due aviarie nella mia vita. La prima non la conoscono molti. Erano gli anni 1999-2000. A 32 anni, ero in Veneto da sei mesi, mi sono trovata a gestire la più grande epidemia di influenza aviaria che si fosse verificata sulla faccia della Terra. È un virus terribile, uccide il 100 per cento degli animali che infetta nel giro di 48 ore, è una minaccia per la salute pubblica. Ci fu un panico generale, temevamo una diffusione incontrollata.
E tu cosa hai fatto?
Noi all’Istituto di Padova ci sapevamo fare: era un argomento che conoscevamo bene. E abbiamo investito creando una conoscenza unica. Abbiamo fatto un grande lavoro con i paesi in via di sviluppo. E siamo entrati in sette progetti europei.
Esattamente cosa avete fatto?
Abbiamo istituito un protocollo chiamato Diva. Consente, in caso di aviaria, di vaccinare e mantenere le esportazioni identificando il portatore sano. Oggi questa cosa fa parte della legislazione europea.
Scusa ma prima che vi inventaste questa strada, cosa si faceva in caso di aviaria.
Si abbattevano tutti gli animali e si bloccavano le esportazioni. Una catastrofe. Noi a Padova siamo riusciti a studiare un vaccino con un test che mette in luce se gli anticorpi sono indotti dal vaccino o dal virus.
Poi c’è la seconda ondata di aviaria, più grave se ricordo bene.
Nel 2006 l’aviaria era appena arrivata in Africa, il nostro laboratorio era stato il primo ad isolare il virus, in Nigeria. Tutti che mi correvano dietro per avere questo virus, mi telefonarono da OMS e mi dissero: se ci dai l’impronta digitale del virus, depositiamo la sequenza in database ad accesso limitato per 15 laboratori e ti diamo la password di accesso. Non me la sono sentita. Se era davvero pandemia dovevamo lavorare tutti assieme e mi sono ficcata in un pasticcio che non immaginate.
Sei diventata un eroe, veramente. Seed ti ha eletto “mente rivoluzionaria”, sei entrata fra i 50 scienziati top di Scientific American.
Sono diventata un eroe per caso. Vissi un autentico conflitto etico morale prima di depositare la sequenza in un database aperto, GenBank. E quando lo feci si scatenò un casino internazionale. Io allora dissi solo: di fronte ad una emergenza sanitaria non possono lavorare solo 15 gruppi, dobbiamo lavorare tutti insieme.
Adesso tutti parlano di trasparenza dei dati scientifici.
Adesso. Cinque anni fa era diverso.
Cosa ti ha spinto in quella direzione? Cultura, etica, carattere?
Io ho fortissimo rispetto per chi mi paga lo stipendio, cioé voi, io sono un dipendente pubblico, e sono pagata per tutelare la vostra salute. E credo che solo attraverso la collaborazione di molti si trovano soluzioni a problemi molto complessi.
E’ un discorso molto internettiano, c’è molta cultura digitale dentro.
Allora non me ne rendevo conto. Ho fatto solo una cosa logica, di buon senso.
A che punto siamo adesso?
Ora siamo di là del fiume, le principali organizzazioni di salute animale dicono che ogni laboratorio che isola un virus lo deve depositare in una bancadati accessibile a tutti. Serve maggiore trasparenza dei dati genetici dei virus, siamo tutti d’accordo. Non è più tempo di chiuderli in dei cassetti e dire: questo me lo guardo solo io con calma.
Poi c’è il terzo dogma abbattuto.
E’ il caso più recente. Fino a poco tempo fa si pensava che gli essere umani non potessero infettarsi con virus del sottotipo h1 e h3, visto che c’erano influenze animali di quel tipo. Era un dogma che diceva che noi siamo protetti da eventuale pandemia di questo tipo. Per me invece i virus animali sono troppo distsanti, e abbiamo dimostrato che popolazione umana era scoperta.
E cosa hai fatto?
Ho scritto un paper per Science che ha rifiutato mio lavoro.
Anche se eri una mente rivoluzionaria?
Sì. E dopo tre mesi è venuto fuori che avevo ragione.
Facciamo un passo indietro. Come nasci?
A Roma, 45 anni fa. Avevo un nonno agronomo che era stato preside di Economia. Pare che gli assomigli molto.
E cosa sognvani di diventare?
Una scienziata. Avevo il sacro fuoco, il mio modello era Rita Levi Montalcini. Solo che a 17 anni volevo andare via di casa e visto che l’unica facoltà scientifica che non c’era a Roma era Veterinaria, scelsi Veterinaria a Perugia.
Perché volevi andare via di casa?
Perché è giusto. Perché uno a quell’età deve avere voglia di andare via di casa e scoprire il mondo.
Ad un tappa di Working Capital dove eri ospite hai fatto una tirata su questo.
Perché è uno dei grossissimi limiti dell’Italia. I ragazzi non conoscono l’Italia e non conoscono il mondo. Se potessero resterebbero tutta la vita nel loro quartiere. Io sono una scienziata made in italy, ma la mia fortuna è stata trascorrere lunghi periodi all’estero riportando qui mentalità e intraprendenza vista altrove. Ogni volta che posso faccio questo appello come mamma: ragazzi, andate fuori, dove perdiamo nel confronto con gli stranieri non è nell’intelligenza e nella creatività, ma nel fatto che non conosciamo altre realtà. I fondi, per chi vuole studiare all’estero, ci sono.
C’è la questione dell’inglese.
Bisogna saperlo parlare perfettamente. Così così non basta, non serve a niente.
Tu dove l’hai imparato?
Sono fortunata. Ho frequentato una scuola inglese da piccola. E poi ho un marito scozzese, conosciuto in un aeroporto viaggiando.
Torniamo al tuo lavoro. Ti senti apprezzata in Italia? Non hai neanche una pagina su Wikipedia…
Sono molto soddisfatta del lavoro che faccio. Guido una struttura di ricerca di alto livello nell’ambito di un ente pubblico italiano. Ma certo a volte è dura.
Fammi un esempio.
Chi ha presentato mozione a OMS per far prendere posizione sulla questione dei dati del virus dell’aviaria? Il governo olandese. Mi piange il cuore, una cosa nata in Italia, riconosciuta in tutto il mondo e… lasciamo perdere.
Perché stai ancora qui e non sei andata a lavorare all’estero?
Primo, perché temo che se me ne andassi, qui a Padova crollerebbe tutto. Secondo, perchè in Italia le cose si possono fare. Sono partita 10 anni fa con un gruppo di 8 persone, tutti dipendenti pubblici, ora siamo 70 e siamo un gruppo leader a livello mondiale. Ho un iraniano una canadese una messicana. E negli ultimi 5 anni abbiamo raccolto 12,5 milioni di euro per la ricerca.
Tu dici che si può fare in un paese impregnato delle retorica del “qui non cambia niente”.
Ecco, questo non è vero. Se io, veterinario che lavora presso uno struttura pubblica del Servizio sanitario nazionale, sono stata in grado di accendere un dibattito che ha toccato l’assemblea mondiale della sanità, criticando apertamente un sistema poco trasparente che di fatto rallentava la ricerca, a vantaggio di una racclta di dati e di analisi degli stessi aperta e interdisciplinare, beh, sono sicura, che in altre discipline ci sono colleghi preparatissimi, con idee innovative, che possono rompere gli argini e far prendere alla ricerca italiana una direzione che ci porti ad essere partner e leader nella scienza che conta.
Cosa fare per la ricerca in Italia? C’è qualcosa di più innovativo della giusta richiesta di avere più fondi?
È tempo di vacche magre per tutti. L’Italia ha sempre investito poco e questo lo paghiamo e lo pagheremo come paese. Ma i ricercatori italiani devono essere più pronti a confrontarsi in una dimensione almeno europea, vendere le loro idee all’estero, trovare partner internazionali. Sperare di fare ricerca in un sistema protetto è sbagliato, la ricerca ormai è europea e bisogna essere competitivi al livello europeo.
Proponi una visione dinamica della ricerca.
Molti italiani sognano di fare il dottorato sottocasa, mentre farebbero meglio a farlo in Australia magari facendo il cameriere nel tempo libero. E poi tornare qui se vogliono. Non dobbiamo più pensare al posto di lavoro nella città natale.
Se sei donna, è ancora più difficile fare quello che dici.
La ricerca non può essere un parcheggio mentre si fa altro. E’ invece una carriera dinamica. Vuol dire alzarsi alle quattro del mattino e girare il mondo in economy. Mentre sento molte donne dire: faccio il dottorato così intanto faccio due figli.
Tu quanti figli hai?
Una, di sei anni. Una mica tre. Fare ricerca vuol dire anche fare delle rinunce.
Dirlo in questo modo ti potrebbe rendere antipatica.
Spero di no. Questo paese ha bisogno di meno modelle e più modelli e io vorrei essere un modello per le donne che amano la ricerca.
Ci vuole una forza notevole per questo approccio. Tu non sei mai entrata in crisi?
Mai? Non sai quante volte. Ho avuto tante batoste e due esaurimenti nervosi. Per rimettersi in piedi dopo le batoste ci vuole una combinazione di determinazione e fortuna. Ma si impara più da una sconfitta che da una vittoria, dopo vedi le cose in modo diverso.
Tu non mi sembri una che dice: piove governo ladro.
No effettivamente: se piove apro l’ombrello e vado avanti.
Che Italia vedi dal tuo osservatorio?
Vedo un paese ingessato vedo che ha iniziato a parlare di cambiamenti ma non ha il coraggio di portarli avanti.
Nel tuo settore hai abbattuto tanti dogmi, proviamo sul sistema Italia.
L’evasione fiscale. Io farei delle vetrofanie da attaccare sulle vetrine dei negozi con scritto: qui faccio la ricevuta fiscale. Paghi le tasse? Dillo. A volte bastano piccoli passi per modificare i comportamenti di tanti e innescare una spirale positiva.
Senti, a chi lo dedichi questo premio?
A tutti quelli che mi hanno veramente aiutato, ho avuto sostegni incredibili in tutto il mondo. Un nome per tutti: Isabel Minguez Tudela, scomparsa di recente.
Che farai con i centomila dollari?
Non ci ho ancora pensato. Magari un sabbatico… Non lo so.
Guardiamo al futuro. One Health, guardare alla salute degli animali e dell’uomo come a un unico fenomeno con due facce.
Non è un concetto che ho inventato io, però. Io ho elaborato concetto di One Flu, un approccio integrato alle epidemie influenzali. Credo che le varie manifestazioni influenzali uomo e animali vadano studiati in maniera congiunta.
La scienza opensource, ormai è un fatto acquisito per sempre?
Gli scienziati sono molto più conservatori di quanto si pensi. Ma il principio di condividere i dati è stabilito da tutte le grandi organizzazioni internazionali.
Il nuovo presidente del Cnr, Francesco Profumo, appena insediato, ha rilasciato una intervista sintetizzata dal titolo: più brevetti e meno pubblicazioni.
Più brevetti è giusto, ma è una cultura che in Italia non esiste e non si crea dal nulla in poco tempo. Intanto potremmo pubblicare molto meglio e ad un altro livello.
Un messaggio per chiudere.
Vi prego di credere che anche nell’ambito della ricerca pubblica e del servizio sanitario nazionale ci sono punte di eccellenze che possono fungere da traino per tutto il Paese.

Riccardo Luna

Giornalista, sono stato il primo direttore dell'edizione italiana di Wired e il promotore della candidatura di Internet al Nobel per la Pace. Su Twitter sono @riccardowired Per segnalare storie di innovatori scrivetemi qui riccardoluna@ymail.com. La raccolta dei miei articoli per Wired è un social-ebook scaricabile da www.addeditore.it.