Via Poma, non chiamatela giustizia
Roma, 7 agosto 1990. Una ragazza viene trovata morta in una pozza di sangue. Il corpo è martoriato da una ventina di ferite da taglio. Il Pm arriva sul luogo del delitto, un anonimo ufficio. Tocca, gira, guarda. Poco dopo iniziano le indagini: mal condotte, produrranno solo indizi incerti, ovvero nulla.
È il 1992 e quel Pm, nonostante i pochi elementi raccolti, chiede di processare due persone, un anziano portiere e un giovane rampollo. Segue un processo, amplificato da un gran clamore mediatico. I due imputati sono messi alla gogna, ma poi vengono riconosciuti innocenti.
Quel Pm, improduttivo e tenace, insiste. Impugna in appello e in Cassazione, ma la risposta è la stessa. Non colpevoli. In altre parole: quelle due persone non andavano processate.
Finisce il processo e finisce il clamore. Il fascicolo va in archivio e il vero il colpevole se la cava.
Diversa la sorte per i due ex imputati. Il più giovane cerca l’oblio, l’anonimato. Il più anziano, quattro anni fa, si uccide lasciando un biglietto: «Perseguitato senza nessuna prova».
Passano 17 anni. È il settembre del 2007. Un altro Pm indaga su un’altra persona.
Ci si chiede: «quel Pm avrà trovato un nuovo elemento di prova? Un nuovo Dna collegato al delitto? Una nuova testimonianza?» No, nulla di tutto questo. Il quadro indiziario è immutato. È lo stesso di 17 anni prima. Incerto e debole. Eppure si decide di indagare lo stesso quella persona, attraverso dei semplici accorgimenti: si cambia l’ora della morte della vittima (dato quanto mai incerto), si contesta l’alibi all’indagato (dopo 17 anni!) e si mettono in discussione gli indizi (sempre gli stessi, incerti e deboli).
Ma poco importa. Quegli accorgimenti bastano per iniziare un nuovo processo dove quella persona rischia una condanna a 24 anni di carcere. In altre parole un incubo, una famiglia martoriata. Un’altra vita, oltre alla vittima e a un ex imputato, che rischia di essere spezzata ingiustamente.
Dite che è un racconto di fantasia? No, è la sintesi delle inchieste sul delitto di via Poma. Inchieste nate da numerosi errori, errori sfociati in tanti processi, processi che hanno prodotto incertezze su incertezze. Esiste forse un fenomeno peggiore per la convivenza civile? Non credo. Un fenomeno terribile, simile a una disgrazia, che non ha nulla a che fare con le finalità del processo penale.
Ieri sera, a quasi 24 anni dal delitto, la Corte di Cassazione ha messo fine a questa barbarie. Raniero Busco è stato assolto. Un’assoluzione che rincuora chi ha senso civico, ma che non sana il danno subito ingiustamente da quel cittadino. Il danno causato da un processo sbagliato. Un danno simile a quello subito da chi viene messo in carcere per errore. Ed è questo il punto che svela la patologia: non l’assoluzione, ma un processo che non doveva neanche essere iniziato.
Ora Raniero Busco può ricominciare a vivere, ma chi lo ripagherà per ciò che ha dovuto subire ingiustamente?
Ora Raniero Busco è stato assolto, ma non chiamatela Giustizia.