Giudici in carcere, un’idea da Torino
Mandare i giudici in carcere può suonare come una battuta, o può ricordare un pensiero ricorrente in alcuni. E invece a Torino, e solo lì, i giudici sono andati a vedere come di fatto vengono eseguite le loro misure cautelari o le loro sentenze.
Un evento tanto importante, quanto raro. Quanti giudici infatti conoscono il carcere? Quanti sono mai entrati nelle celle di un penitenziario per vedere le reali condizioni di vita dei detenuti? Quanti conoscono di fatto il modo in cui verrà eseguito un loro legittimo provvedimento restrittivo? Assai pochi. Anzi pochissimi. Un fenomeno davvero strano. Una mancanza davvero grave. È come se un chirurgo, dopo aver ben operato un paziente, si disinteressasse poi delle condizioni in cui vive quel paziente nel reparto ospedaliero. Strano, illogico e di poco buon senso. Un disinteressamento che diventa gravissimo per i giudici, vista la vergognosa condizione delle patrie galere. Galere dove, a causa delle condizioni disumane di vita, la detenzione si tramuta in maltrattamenti.
Una carenza culturale e formativa, che a Torino (e soltanto lì) si è cercato di colmare. Nel mese di luglio infatti, grazie all’iniziativa presa dal Presidente dell’ufficio Gip, Francesco Gianfrotta e dal direttore del carcere di Torino Pietro Buffa, 13 giudici delle indagini preliminari sono andati in visita nel penitenziario le Vallette di Torino. Tutti ora hanno visto. Tutti hanno sentito la puzza di quelle celle sovraffollate.
«È un’iniziativa che vuole aiutare noi magistrati a conoscere i luoghi in cui vivono le persone che sono in carcere per effetto delle nostre decisioni» Ha spiegato a Radiocarcere su Radio Radicale il giudice di Torino, Roberto Arata, tra i sostenitori di questa preziosa iniziativa e membro (guarda caso) dell’esecutivo di Magistratura Democratica. «E questo perché è importante aumentare il livello di consapevolezza nella magistratura su cosa è il carcere. Siamo noi magistrati a mettere le persone in carcere e spesso lo facciamo senza sapere dove li mettiamo. È quindi importante che i giudici sappiano cosa concretamente c’è dentro le loro decisioni, cosa c’è dopo». Già cosa c’è dopo. Un dopo che significa sovraffollamento nel carcere di Torino. Che significa trattamenti disumani e degradanti.
Il carcere di Torino infatti non è, nonostante gli sforzi del direttore Pietro Buffa, un carcere modello. Tutt’altro. È un carcere gravemente sovraffollato. Costruito nel 1978, potrebbe contenere meno di mille detenuti, ma oggi ne contiene ammassati più di 1.600. Un sovraffollamento che determina il tutto esaurito nel carcere di torinese. Nelle celle non c’è più spazio per nessun’altro. Grandi appena sei metri quadrati, ci vivono oggi cinque persone detenute.
Ed è così che i detenuti a Torino vengono messi ovunque ci sia posto. Per terra nella palestra del carcere, per terra nelle salette per i computer o nelle camere di sicurezza e addirittura per terra lungo i corridoi. Un sovraffollamento che determina anche la morte. Ovvero la scelta di morire. Scelta disperata. Non a caso negli ultimi mesi sono già tre le persone detenute che si sono impiccate nel carcere di Torino. Persone che hanno deciso che quella non era più vita, neanche se si è detenuti.
Dunque bene hanno fatto i giudici di Torino a capire com’è la vita nel carcere di loro competenza. Bene hanno fatto a vedere con i loro occhi l’insensatezza di condanne eseguite in quel modo. Un’iniziativa che forse, e c’è da auguraselo, verrà ripetuta anche a settembre coinvolgendo i giudici del Tribunale di Torino. Un’iniziativa che sarebbe logico e giusto estendere in altre città e in altri distretti giudiziari. E questo non solo a fini formativi e di valutazione del caso concreto, ma anche perché fare il giudice non è come far l’impiegato che, chiusa la pratica ed esaurito il suo compito, si disinteressa del dopo. Il giudice è, o almeno dovrebbe essere, colui che contribuisce all’armonizzazione del sistema. Nel suo prima e nel suo dopo.