Segnali di fumo dal World Press Photo
Interessante questa edizione del World Press Photo, mi sembra che la fotografia sia rappresentata nelle sue molteplici declinazioni. A me la foto dell’anno piace, anche se ne vedo i limiti. Ha una sua delicata poetica ma non la forza di imporsi. Sono contenta se contribuirà anche solo un poco a portare l’attenzione sull’omofobia e sulle discriminazioni di genere in Russia (e non solo lì) e a far riflettere sulla scelta d’amore. Però è un’immagine fragile, una singles picture che non ha la forza per esserlo. Manca il prima e il dopo. Non c’è narrazione e lo si capisce ancora meglio andando a vedere il lavoro completo Homophobia in Russia, di Mads Nissen, il vincitore, sul suo sito.
Non è l’icona – sebbene la scena sia più che mai iconica – a cui questo premio ci ha spesso abituati, ma non ha quel mistero necessario che induce domande. È una fotografia semplice, organizzata nel senso migliore (il fotografo è stato invitato a casa della coppia), la luce, volutamente pittorica e la perfetta geometria dei corpi, cercano un’intensità che alla fine non c’è.
Non offre piani di lettura, non stratifica livelli di possibilità interpretativa ma nella sua innocenza questa foto dell’anno, consente al premio stesso di osare e di sdoganarsi dalle cronache e dagli stereotipi per aprirsi a nuovi linguaggi. Rispetto a quella dello scorso anno di John Stanmeyer, che per me rimarrà come l’icona di un brand di smartphone (ricordate i migranti africani sulla spiaggia di Gibuti che cercano il segnale?) questa immagine ha un candore e una elementarità che la rende difficilmente criticabile, per il tema che tratta e per l’implicita sincerità dell’autore.
Si respira, ed è buona proprio per questo.
Il World Press Photo è un premio generalista, parla alla grande comunità di chi segue l’informazione, basta vedere lo sciame di gallery delle ultime 24 ore su di tutti i giornali del mondo. Una comunità molto più ampia di chi segue la fotografia e le sue capriole. Il Premio denuncia, come ogni anno, una criticità, un angolo del pianeta in cui si consumano drammi o ingiustizie, discriminazioni e repressioni e noi, che ci occupiamo in vario modo di immagini, discutiamo a ogni edizione del World Press Photo dell’incapacità di questo premio di rinnovarsi, di aprirsi a nuovi stimoli, di accogliere altre visioni, e critichiamo un attaccamento agli stereotipi del fotogiornalismo.
Succede quando si è giurati: ci si interroga su cosa si sta scegliendo e si mettono in discussione tutti i principi. Succede quando si è spettatori: inevitabilmente ci si chiede con quale criterio sia stata scelta questa o quella. Questa edizione mi sembra dimostri che il cammino è avviato e che il buon vecchio World Press Photo stia cercando nuove possibilità. Non è solo la varietà dei linguaggi che si nota in questa edizione, ma l’accoglienza di interessanti proposte che vengono dalla vivace fotografia dall’Estremo Oriente così come l’esaltazione dei singoli autori che producono con le committenze più diverse, veri protagonisti della fotografia contemporanea. Con buona pace delle agenzie di stampa e indipendenti che sembrano sempre meno protagoniste della scena attuale. Probabile merito di una giuria eterogenea, alla fine il risultato di questa edizione è una buona alternanza tra generi e soggetti, specchio della contemporaneità della fotografia.
Italians en plein
Di pancia ho un italico orgoglio che mi fa gioire per i 10 premiati.
Non è solo tifo per la squadra nazionale ma piuttosto una conferma della vitalità della fotografia del nostro Paese.
Scorrendo i nomi dei premiati, inizio col dire che sono contenta del premio a Massimo Sestini: un gigante delle news che troppo spesso è stato confuso con il paparazzismo, genere di cui va fiero e non rinnega, ma non esaurisce la sua lunga esperienza e la sua capacità di esserci nel cogliere i momenti importanti della vita italiana. Oggi sono premiati i barconi dei migranti con un ripresa dall’alto eccellente, esaustiva, Massimo ci ha abituato nel corso della sua lunga e vivace carriera a immagini spettacolari e perfette. Puntuali sarebbe più giusto dire, come le scenografiche eruzioni dell’Etna e, un tragico giorno, di tanti anni fa, l’immagine della strage di Capaci, solo per citare le prime che mi vengono in mente. Di cielo, di terra e di mare, Massimo è un fotografo versatile, preciso, puntuale.
Quasi ossessivo nell’avere la “foto” dell’evento. Per lui le fotografie sono sempre inevitabilmente singole
Sono contenta per gli amici: Gianfranco Tripodo che testardamente persegue il progetto sui migranti alle frontiere dell’Europa del sud; per Michele Palazzi e la sua poetica Mongolia che ha inondato le redazioni dei periodici in cerca di una visibilità; per Paolo Verzone che, con il premio a lungo progetto sui cadetti (già un libro e una mostra) vede confermato il valore di anni di paziente ricerca e lavoro. Ho apprezzato davvero molto il bel lavoro di Giovanni Troilo, fotografo eclettico tra immagini fisse e in movimento, capace di dominare la luce e restituire un affresco noir rimanendo incollato alla storia senza cadere nel tranello del voyerismo estetico. Giulio Di Sturco è bravo e migliora. Con Chollywood, reportage su uno studio cinematografico in Cina, si è aggiudicato anche quest’anno la sua dose di gloria. Vince spesso questo e altri premi, è meno notizia ma non meno gioia. Conosco appena Turi Calafato ma il suo lavoro sui giapponesi alla tavola calda mi piace in questa competizione: porta la serialità e non rinuncia alla documentazione. Di tutt’altro tenore Paolo Marchetti, da sempre attento agli aspetti più estremi dell’attualità: ha vinto con il progetto sul commercio della pelle di coccodrillo in Colombia.
Non avevo mai sentito parlare di Fulvio Bugani e non avevo visto neppure il suo lavoro sui transgender a Java e sono sorpresa e felice di essere ignorante.
Mi commuove il premio a Russian interiors di Andy Rocchelli, morto lo scorso maggio in Ucraina. Il lavoro è bello, nato come escamotage di sopravvivenza per il fotografo – andate a vedere, leggere e acquistare qui – è diventato un’opera: un ritratto antropologico di una generazione di donne in fuga dalla madre patria. Se è vero che i premi incoraggiano, il dolore e il rammarico è che Andy non potrà goderne e neppure noi che avremo più il privilegio di vedere le sue storie.
Questa edizione presenta due grandi novità: la prima è di aver inserito la categoria “Long term projects” che rappresenta un’importante opportunità per i tanti autori che lavorano per anni sullo stesso tema e che da questa competizione erano fatalmente esclusi. La seconda, indispensabile, è una stretta sulla manipolazione digitale delle immagini. Il 20 per cento è stato scartato nella penultima fase della giuria per eccesso di manipolazione: anche questo era necessario e doveroso dopo anni in cui il World Press Photo era analizzato più per la postproduzione che per il contenuto dei premi in gara. Non è ancora del tutto risolta ma la strada è giusta.
Finalmente si può discutere delle fotografie in concorso e non (solo) delle loro elaborazioni. Possiamo guardarle con meno diffidenza, lasciandoci catturare dalle storie del mondo e parlare di contenuto e forma. Con buona pace per i pixel, lasciati a riposare ognuno al suo posto.