Le fotografie tarocche
Mi scrive un amico: «Hai visto la storia degli eremiti? Tutta manipolata».
Dopo un’ora arrivano altri solleciti: «Che ne pensi? conosci la storia? hai visto il lavoro?».
Guardo in rete e vedo che la polemica infuria.
Il caso in questione riguarda la manipolazione (in alcuni casi invenzione) delle immagini di “Eremiti del terzo millennio”, lungo progetto del fotografo italiano Carlo Bevilacqua. Pubblicato ormai due anni fa su Lens del New York Times, il lavoro venne poco dopo smascherato da fuoco amico. Mi racconta Bevilacqua che un’amica (minimo un’amante abbandonata) inviò una mail a James Estrin, phoeditor di Lens, avvertendolo delle manipolazioni. Gli americani hanno sempre da insegnare in materia di etica e dunque il buon Estrin fece didascalie in cui informava dettagliatamente del tipo di manipolazione. Fece scalpore e si discusse, ma non troppo. Ora il caso torna alla ribalta perché La Stampa pubblica (27 novembre scorso) una gallery online dedicata a Eremiti. Christopher Morris, celebre, amato e rispettato fotografo dei grandi eventi degli ultimi decenni, collaboratore di Time, posta su Facebook una critica al lavoro e soprattutto alla sua permanenza nel mondo della fotografia documentaria che oggi, con libro e mostra, diffonde il suo carico di ambiguità e inganno. Si scatena il dibattito.
Andiamo sulla scena del “delitto”: gli eremiti c’erano e c’era pure il fotografo, come lui stesso dichiara accorato, ma non tutto si è svolto come lo vediamo nelle immagini. Un eremita ritratto in un’atmosfera grave con volto contrito si scopre essere nel mezzo di un prato.
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Si apprende che la passeggiata dell’eremita che galoppa con un cavallo selvaggio al seguito non è avvenuta nello stesso momento: cavallo e cavaliere sono stati incollati grazie al compagno Photoshop.
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Un terzo eremita incassato nel tronco di un albero secolare ha smesso di fumare: nell’immagine originale aveva la sigaretta che è stata salutisticamente tolta, il volto non piaceva all’autore ed è stato clonato con un altro scatto più fermo, più bello (che vorrà dire poi “bello” non so spiegarlo).
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Pare siano (solo) 3 le colpevoli.
Parlo a lungo con Carlo. È afflitto da questa polemica. Non pensava che riesumasse dopo due anni. «Ho sbagliato ma, dopo la faccenda di Lens, ho capito. Nel libro non c’è più una sola immagine manipolata. Ho tolto tutto. E neppure nella mostra – giura, con enfasi da buon siciliano – All’inizio pensavo che il lavoro fosse destinato al mercato fine art e non mi ero posto il problema, poi ha virato sul reportage (chi ha virato? Il lavoro, l’eremita, il fotografo?). Ora ho capito», ripete.
Me lo auguro perché le motivazioni date a suo tempo a Lens erano terribili: «Carlo Bevilacqua, the photographer, said he sometimes combines images because “it gives more force to the story I’m trying to tell.” “It’s not that I wasn’t there, I was there».
Sappiamo dall’autore che le immagini manipolate sono tre, ma temo che nessuno di noi, spettatori, abbia più fiducia nel resto del lavoro. E non si tratta di portare prove e analizzare i files raw. Non siamo in tribunale. È questione di pancia, di impatto. Ne parlo con una certa partecipazione perché io stessa ho pubblicato il lavoro su Io donna, il femminile del Corriere della Sera, non più tardi di due mesi or sono. Ne parlo perché conosco Carlo Bevilacqua e durante un viaggio aereo casualmente condiviso – proprio nel 2012 poco prima della gallery incriminata di Lens – ho visto con attenzione la maquette del libro e conversato a lungo con lui. Allora non mi disse delle manipolazioni e non lo ha fatto neppure recentemente.
Quale è il confine del taroccamento delle immagini? Dipingere cieli plumbei sul cammino di profughi in fuga è lecito? “Disegnare” i volti, sottolineando i tratti fino a scavarli per drammatizzare è etico? Aggiungere il fuoco o il fumo dopo l’esplosione di un ordigno è lecito? E togliere un piede che ingombra? Trasformare la luce di un funerale? Sono migliaia gli esempi che potremmo annoverare nel libro nero del fotogiornalismo dell’era digitale. Non che prima dei pixel non ci fossero montaggi e trasformazioni, lo sappiamo. Ma il confine della manipolazione non è così sottile come sembra dai dibattiti in corso. È un confine chiaro e preciso che può determinare una buona fotografia da una tarocca.
Oggi mi dispiaccio. Non perché Carlo manipoli le immagini, ma perché non lo abbia mai dichiarato. Perché ha prodotto e diffuso il lavoro pensando di farla franca e gabbando tutti i suoi interlocutori, me compresa. Io sono libera di pubblicare fotografia documentaria, fotogiornalistica, artistica, concettuale. I giornali hanno bisogno di linguaggi diversi, per rinnovarsi, per non annoiare e annoiarsi. L’attuale tecnologia ci offre possibilità straordinarie e differenti declinazioni nell’uso della fotografia, ma io voglio sapere l’origine e la storia di quel lavoro. Voglio sapere se sto pubblicando qualcosa che è reale, documento di un fatto, di un tempo, di una storia. Voglio poter apprezzare l’interpretazione dell’autore, la sua poetica, la forza narrativa. Posso anche scegliere di pubblicare manipolazioni – proprio in questi giorni sto lavorando a un portfolio di “fotografia ibrida” come dichiara il suo autore, senza troppi giri di parole – in questo caso so cosa sto pubblicando: lui me lo spiega e io, a mia volta, spiego al pubblico l’origine dell’immagine in ogni singola didascalia. Il fotografo in questione si ritiene un artista. Non è interessato alla realtà ma, come mi dice «l’unica realtà è quella dell’immagine». Si può condividere o no, ma qui la faccenda diventa filosofica e piuttosto ampia.
Quello che si contesta a Bevilacqua e all’agenzia che lo rappresenta, Parallelozero, è di agire nell’ambito fotogiornalistico o dello storytelling (come va di moda) e di fare proclami sull’etica del buon fotogiornalista. Così recita la presentazione dell’agenzia sul proprio sito: «La nostra missione è mantenere uno sguardo attento sul mondo, continuando a viaggiare e a raccontare le tante storie che esso nasconde, scardinando gli stereotipi che ci impediscono di vederlo per ciò che è».
È proprio inseguendo lo stereotipo di immagini più forti, più composte, più brillanti che si perde lo sguardo attento sul mondo. La fotografia umanistica e il fotogiornalismo sono le vittime privilegiate dei trucchi digitali e delle combine: non sostituiscono, neppure con i migliori tecnicismi, le sue peculiarità: forza interpretativa e poetica. E se proprio alcuni non possono fare a meno di manipolare e inventare le immagini, lo dichiarino. Non ci saranno processi, ma consapevole libertà di scegliere se e come utilizzare quelle immagini: senza inganno per chi le mostra e per il pubblico che le guarda.