La notte più lunga – Tienanmen, 25 anni dopo
Una storia analogica per parole e immagini di Dario Mitidieri.
Unknown Rebel o ribelle sconosciuto. La fotografia è quella scattata da Stuart Franklin di Magnum, da Jeff Widener dell’Associated Press e da Charlie Cole di Newsweek – che con quell’icona vinse il World Press Photo 1989 – del giovane immobile che ferma i carri armati mentre avanzano verso Piazza Tienanmen e che, nelle ore successive, avrebbero soffocato nel sangue la protesta studentesca.
Quell’immagine o le sue differenti versioni, fecero il giro del mondo, icone – odiata parola in fotografia – tanto che nel 1998 Time incluse il “ribelle sconosciuto” nella lista “Le persone che più hanno influenzato il XX secolo” e nel 2003 l’immagine venne inserita nella rubrica “Le 100 foto che hanno cambiato il mondo” della rivista Life.
La storia di Tienanmen è ancora piena di lati oscuri e di ricostruzioni sommarie ma, dentro la storia, quella fotografia ha costituito una storia a sé. Come tutte le icone non racconta cosa successe prima e dopo e cosa stava accadendo intorno. Assolve al compito di racchiudere l’immortalità dell’attimo. Nella potenza della sintesi, acceca, a volte sciocca e stordisce. Non lascia margine, non consente ombre e pieghe in cui cercare il senso, farsi domande, lasciarsi assalire dai dubbi. Le icone sono sempre state importanti, proliferate in tempi moderni, ora così indispensabili da essere costruite ad hoc.
A me interessa il racconto, il prima e il dopo.
Mi incuriosiscono i fotografi che cercano le storie della storia.
Così riprendo il lavoro di Dario Mitidieri, fotografo italiano, da tre decenni londinese.
Un giovane talento dei primi anni ‘90, vincitore dello Eugene Smith nel 1991 con il lavoro sui bambini di strada di Bombay, quando ancora i bambini indiani non erano sinonimo di “reportage riempitivo” sulla stampa periodica.
Un fotografo gentile, a modo. Capace di andare e stare. Fu quello che fece a Tienanmen.
Non realizzò l’icona del ribelle sconosciuto ma molte altre immagini che, guardandole oggi a distanza di 25 lunghi anni, ci raccontano un prima che abbiamo dimenticato: il clima che si respirava in piazza Tienanmen, la festa, gli studenti con le chitarre che cantano, quelli sfiniti dal sit-in che dormono, molti sorridono, un bambino che come dice Dario, dà il benvenuto ai soldati. Sembra una festa ma, scorrendo le immagini, si segue il mutare degli eventi: scende il buio, cominciano gli scontri, le immagini mostrano facce tese, sguardi allucinati, si vedono volti insanguinati e poi cadaveri carbonizzati, colonne di fumo che si levano tutto intorno, ospedali stracolmi e infine cadaveri ammassati.
Succedeva 25 anni fa. Non c’era la rete e nessuno postava le immagini compulsivamente.
Non c’erano selfie e neppure time-lapse.
Non sento Dario Mitidieri da un po’ di anni ma scopro che ha voglia di raccontare la notte più lunga della sua vita. Come si faceva una volta, con le immagini e con le parole, e viceversa.
Quanti anni avevi quando sei andato in Cina e ti sei trovato in mezzo alla protesta di Tienanmen?
30 anni
Perché eri andato lì?
Mi interessava fare un reportage sugli studenti che occupavano la piazza da oltre due mesi, piazza considerata il centro del potere comunista in Cina.
Quanto tempo sei stato?
Esattamente 10 giorni. Con partenza per Londra la sera del 4 giugno e arrivo a Londra alle 5 del mattino.
Le mie foto sono state le prime a raggiungere l’Europa, a parte quelle delle agenzie di stampa come Reuters. Non c’era ancora il digitale, io utilizzavo pellicola bianco e nero Kodak Tri-X.
Che altri reportage avevi fatto prima di questo?
Ho iniziato come professionista nel 1987 e fino a quel momento il mio reportage più importante era stato sui profughi della Cambogia ai confini della Thailandia.
Come ti eri finanziato?
Da solo e il viaggio in aereo era stato pagato dal Sunday Telegraph dove lavoravo come freelance.
Dove venne pubblicato il lavoro?
Letteralmente su tutte le prime pagine dei quotidiani inglesi. E poi tante riviste inglesi e internazionali, incluso The Independent Magazine, Stern, L’Express, L’Europeo, e tanti altri.
Ti rendesti subito conto di cosa stava succedendo?
No. Successe tutto all’improvviso verso le 8 di sera quando stavamo mangiando al Bejing Hotel e iniziarono a sparare.
La mia foto del bambino che dà il benvenuto ai soldati che si avvicinano a Tienanmen Square, fu scattata due ore prima che tutto cominciasse.
A distanza di 25 anni, quell’esperienza come ti ha cambiato e che ruolo ha avuto sulla scelta di continuare a testimoniare?
L’esperienza di Piazza Tienanmen mi ha segnato sia a livello emotivo che a livello professionale.
Nonostante siano passati 25 anni, il ricordo di quello che visto e vissuto in quei 10 giorni é molto vivido. Mi ricordo praticamente tutto. La notte del 3/4 giugno è stata la notte più lunga della mia vita.
Tre episodi possono raccontare la mia esperienza di Piazza Tienanmen.
Il primo episodio è quello del mio collega fotografo Bob Gannon, che allora lavorava per The Guardian. L’esercito ha cominciato a sparare improvvisamente, ognuno era per conto suo e ho rivisto Bob solo il pomeriggio del 4 giugno, per ripartire insieme. Bob ha vissuto un’esperienza talmente drammatica quella notte che da quel momento ha smesso di fare il fotografo.
Un’altra persona a cui ripenso spesso è Cathy, una studentessa universitaria di Beijing che ci accompagnava in quei giorni. Era diventata la nostra fixer e un’amica. Dormivamo nella stessa tenda quando eravamo in piazza. Dal momento in cui sono iniziati gli spari, non abbiamo più avuto notizie di Cathy. Non ho mai saputo se è rimasta viva o morta.
E il momento più drammatico che io abbia vissuto in Piazza Tienanmen è stato la mattina presto del 4 giugno quando alcuni dottori, rischiando tantissimo, mi hanno fatto entrare di nascosto nell’ospedale dove lavoravano, Tienanmen Square Hospital, il più vicino alla piazza. Lì mi sono realmente reso conto di quanto fosse successo in piazza, feriti e morti nelle stanze e nei corridoi dell’ospedale.
Lì ho scattato, con le mani tremanti, la foto dei morti accatastati in una stanza. Un dottore mi ha detto: «Fotografa e fai vedere al mondo quello che sta facendo l’esercito cinese». Così ho fatto.
È stata un’esperienza di quelle che capitano poche volte nella vita di un fotogiornalista: uno di quei rari casi in cui le fotografie scattate non servono solo a raccontare una storia, ma cercano di raccontare la verità che il governo Cinese tentava di deviare e sopprimere.
[Attenzione, alcune fotografie contengono immagini forti]