Quando essere Global va bene
Sono stata al Festival di Savignano sul Rubicone.
Ci vado sempre volentieri perché da qualche anno, con la nuova direzione artistica di Stefania Rössl e Massimo Sordi, mi sembra che ci sia da vedere e soprattutto da scoprire.
La gita conferma quest’impressione: ricco di stimoli – nonostante il titolo respingente di questa edizione “Specie di spazi”, citazione dal saggio di George Perec – dove l’indagine fotografica sullo spazio è interessante, libera e scevra dagli stereotipi dei curatori di mezzo mondo. Respiro una libertà intellettuale e mi piace lo sforzo di cercare nuove modalità di far parlare la fotografia.
È curioso come Rössl e Sordi insieme agli storici ed eroici organizzatori abbiano fatto convivere, in questa cittadina romagnola, l’anima popolare e amatoriale del festival con i nuovi linguaggi contemporanei, le sperimentazioni e impegnativi workshop con autori eccellenti e critici di grande prestigio. Un festival con due anime che forse col tempo, dovrà farle convergere senza perdere spontaneità ed energia.
Ho visto poche mostre a causa di una stupida ma molesta influenza, però la collettiva Global Photography, giovane fotografia europea, mi ha sedotto parecchio: per cui vi offro in questo spazio un estratto che non restituisce il valore intero, ma può suggerire un viaggio in Romagna con sosta obbligata alla trattoria dell’autista (fino al 29 settembre).
In questa collettiva si affronta l’indagine sullo spazio senza nessun preconcetto. Nella volontà degli organizzatori, il progetto Global muove dall’Europa ma, di edizione in edizione, ospiterà contributi internazionali. È una bella panoramica con lavori che di acerbo hanno la giovane età degli autori ma non profondità della ricerca e l’originalità dei soggetti. Non sempre, tra i lavori di Global, il concetto di spazio è immediatamente percepibile ma lo spessore delle indagini induce a riflettere, a cercare di dare senso. Spiegano i curatori, che la loro ricerca è nata dai lavori diffusi nel web ma è stata filtrata, studiata e trasferita sulla carta, sotto forma di mostra, per restituire alla fotografia la sua potenza comunicativa e suggestiva attraverso la materialità dell’esposizione.
Otto fotografi europei che hanno indagato luoghi diversi tra loro e hanno, quasi sempre intensamente, lavorato sullo spazio in relazione al passaggio del tempo.
Tra tutti, ho amato il lavoro di Regine Petersen, tedesca, classe 1976.
Mi piacciono le (ri)costruzioni dove la realtà (il documento) e la finzione si mescolano a narrare una storia vera o presunta tale a cui credi, come i bambini alle favole. Qui si tratta di meteoriti caduti negli Stati Uniti negli anni’50. La fotografa recupera reperti, articoli, testimonianze e foto d’epoca. Segue un filo narrativo e costruisce la storia che ci invita a scoprire: un viaggio nel tempo in cui ogni singola immagine parcellizza informazioni e suscita curiosità.
Il resto della storia lo facciamo noi che, a occhi bene aperti, mentre passeggiamo tra le immagini esposte, ci ritroviamo in Alabama, più o meno mezzo secolo fa.
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La gita a Savignano aveva una ragion d’essere per via di una conferenza dall’impegnativo titolo “Il fotogiornalismo al tempo di internet” in cui vestivo i panni inusuali della moderatrice.
La conferenza è andata bene, credo. Qualche sorriso c’è stato e nessuno ha dormito.
In ogni conferenza il tempo acquista la sua specifica velocità: vola o non passa mai.
Per quanto mi riguarda, è volato e dunque nel prossimo post vorrei condividere confuse riflessioni che ho fatto prima, durante e dopo l’incontro.