Arles in black
Riflessioni per chi c’è stato e consigli per chi ci vorrà andare (c’è tempo fino al 22 settembre prossimo).
La quarantaquattresima edizione dei Rencontres è bellissima: piena di suggestioni, capace di fondere linguaggi differenti.
L’atmosfera è rilassata. Mi sembra ci sia meno pubblico, sarà la crisi, ormai diciamo sempre così. Si passeggia per le strade con meno calca, si trova posto nei ristorantini per mangiare decentemente.
Non si fanno interminabili code per entrare al teatro antico per le proiezioni serali. Eppure i dati appena pubblicati mi smentiscono, i numeri della prima settimana di festival sono eccellenti: 12.000 visitatori da tutto il mondo, di cui 3.452 professionisti, 600 giornalisti accreditati, 92 dibattiti pubblici e tre giorni di seminari sull’estetica del bianco e nero – quelli a cui ho tentato di accedere avevano l’aria di essere interessanti ma rigorosamente in francese.
Le serate al teatro antico con presentazioni di autori e dei loro lavori, sono state seguite da 1.500 persone.
La “nuit de l’année” che rappresenta ogni anno il momento d’incontro tra il festival e la città con proiezioni in ogni stradina e uno sciame di addetti, fotografi e aspiranti tali, che passeggiano, chiacchierano e commentano, è stata trasferita a 40 chilometri di distanza.
Dunque lo sciame è stato trasferito con navette apposite a Salin-de-Giraud, nel mezzo della Camargue. Ma i deportati non sono stati ripagati del sacrificio: proiezioni modeste, disagio del trasbordo e carenza di alcol, hanno infranto il clima arlesiano della festa.
Mi è stato raccontato. Io, diffidente per natura, ho preferito le stelle a bordo fiume nella festa off organizzata dalla casa editrice Riverboom e dall’agenzia Institute.
Le mostre.
Sono 50, interessanti ed eterogenee. 80 gli artisti esposti.
Come dovrebbero essere i festival, come quest’anno è riuscito a fare Arles.
Ode al maestro, Daido Moriyama.
Grandissimo, immenso esploratore di mondi ed emozioni. Onnivoro curioso, sempre incoerente. Bianco e nero esaltante, coinvolgente, disturbante, graffia l’anima.
Attraverso la fotografia stabilisce legami: nulla di quello che in migliaia e migliaia di scatti riprende è distante, freddo, estraneo. Afferra il mondo circostante, ovunque sia, lontano e vicino non sono dimensioni che lo riguardano, perché la sua fotografia trasforma ogni frammento in un’esperienza vissuta e per questo personale. Così almeno penso mentre guardo i suoi lavori, perché mi sento attratta e pervasa da un grande senso libertà mentre inseguo una ricerca che viaggia senza confini.
L’ho inseguito al book signing ma era appena andato via, l’ho cercato alla libreria Actes Sud dove sembrava ci fosse e non sono riuscita ad incontrarlo. Dei fotografi mi interessano le fotografie, ma di Moriyama mi interessa anche la faccia perché il suo strano ritratto, che introduce la sua biografia, incuriosisce ma non svela. Nell’attesa di incontrarlo, prima o poi, mi appago con tutti i fotogrammi di Labyrinth (Aperture ed.), l’ampio volume che ripropone i contact sheets delle ultime cinque decadi della sua produzione ridefinendo il concetto di editing e mescolando il vecchio e il nuovo offrendo nuove interpretazioni della sua opera.
Mentre guardo la mostra Nuovo mondo di Wolfang Tillmans agli atelier, mi avvicinano un po’ di amici e conoscenti, giovani e meno, mi chiedono tutti la stessa cosa: ma tu lo capisci?
Io non sono sicura di capire sempre la fotografia, a volte mi accontento di goderne, provando un piacere fisico nel guardare; altre volte mi lascio stupire e confondere, altre ancora mi dedico, leggo e poi studio. Insomma non ho un’attitudine univoca. Di fronte a questa grande e bellissima mostra di Tillmans – ottimi allestimenti e scelta espositiva – mi nutro delle sue provocazioni, mi sento piccola e indifesa di fronte ai fari delle automobili, esposti a grandezza umana, che mi guardano minacciosi. Mi diverte la mescolanza che crea tra i mondi e i loro protagonisti: oggetti, persone, luoghi, piante, animali.
Da guardare, prima di leggere ogni spiegazione.
Dall’altra parte del mondo, in Cile per l’esattezza, si è svolta la vita e la fotografia struggente, meravigliosamente appassionata di Sergio Larrain. Grande cantore del suo paese e della sua gente. Visionario. Profondamente fotografo – anche se nella sua vita ha insegnato yoga e pittura – da lui la fotografia esce fluida e composta, come una poesia. Bella e dovuta retrospettiva al maestro scomparso l’anno scorso.
Mi sento bene e mi ricongiungo con emozioni semplici ma troppo spesso dimenticate, mentre cammino tra le fotografie e le sculture di Giuseppe Penone, affascinata dalla materia dei suoi alberi e confusa dalla rappresentazione della materia che ci circonda.
Un dialogo tra i linguaggi dell’arte che apre orizzonti.
Originale e straordinario il documento di Miguel Angel Rojas realizzato nei cinema di Bogotà a metà degli anni ’70: frammenti della vita degli omosessuali colombiani che nei cinema consumano incontri fugaci e clandestini. Qui è d’obbligo leggere la descrizione del lavoro in cui il fotografo spiega come lo ha realizzato.
E poi ci sarebbe da scrivere di tanto altro per condividere un’edizione davvero bella, senza tediare, segnalo un suggestivo viaggio su Marte del geniale Xavier Barral e un poetico Arno Rafael Minkkinen che da quaranta anni pone il proprio corpo al centro della ricerca fotografica con risultati sorprendenti e di delicata poesia.
Del rivoluzionario Hiroshi Sugimoto, che personalmente amo molto, dei suoi paesaggi lunari dall’orizzonte verticale, ho colto l’invito a capovolgermi o a capovolgere la Terra. Cercando di ricordare i miei sogni di bambina, ho sposato il suo: fluttuare. Il suo lavoro nasce dalle domande eterne, dalla necessità di dare un senso al tutto senza affidarsi alla fredda logica ma alla percezione e il suo percorso artistico è una costante testimonianza di questo processo. Senza mai risposte ma con nuove domande.
Imperdibili gli Album del curatore Erik Kessels, su cui vorrei tornare a parlare presto.
Di ogni autore, di cui ho accennato, potete vedere un’immagine sul sito dei Rencontres, per chi non riesce ad arrivare fisicamente ad Arles. Per approfondire invece, un viaggio nei siti individuali degli artisti o in quelli delle gallerie che li rappresentano, risarcisce del mancato viaggio.
Per concludere, un critica ci vuole. E non faccio fatica a trovarla.
Il Premio Decouvert o Discovery (non traduciamolo tanto non se ne preoccupa nessuno della nostra lingua) viene assegnato ogni anno da cinque illustrissimi curatori. Quest’anno sembravano eccellenti: Zeina Arida, direttrice della Arab Image Foundation; Diane Dufour, creatrice e direttrice di LeBal; Alison Nordström, curatrice della George Eastman House; Brett Rogers direttrice della Photographers Gallery; Olga Sviblova, fondatrice e direttrice della Casa della fotografia di Mosca.
Cinque donne, grandi nomi e dunque grandi attese. Sulla carta però, perché le proposte dei talenti che ci avrebbero dovuto svelare erano deboli, lontane dalla fotografia.
A pensarci bene, nessuno dei “nominati” realizza fotografia contemporanea documentaria.
Artisti certo, alcuni decisamente stravaganti, largo agli sperimentatori dunque, ma il risultato non sempre è felice. La platea mugugna.
A mio avviso i migliori sono i lavori storici: i ritratti russi realizzati tra gli anni ’80 e ‘90 di Nicolai Bakharev e lo starordinario documento dalla Turchia di Halil, 1968-1972.
Per essere talenti “discovered” forse lo sono, ma autori che indagano la realtà contemporanea?
Vince Yasmine Eid-Sabbagh & Rozenn Quéré con la serie “Vies possibles et imaginaires”. Bella. Premio all’istallazione, alla forma, direi.
Manca la fotografia da scoprire, i talenti da conoscere, le evoluzioni del linguaggio, le storie non raccontate. Abbonda la sperimentazione, la concettualità, l’inanimazione. Tutto molto freddo e distante. Nell’arena battuta dal vento, si attendeva una scoperta, quella che avrebbe regalato un’emozione.