Corpi di reato
Corpi di reato è il lavoro fotografico di Tommaso Bonaventura e Alessandro Imbriaco che arriva a Milano, dopo una tappa romana, alla Galleria Belvedere, Via Santa Maria Valle 5, da giovedì prossimo 21 marzo.
Ci sono molte buone ragioni per andarla a vedere. Una di queste è che non troverete questo lavoro sui giornali, quotidiani o periodici che affollano le nostre edicole sempre meno frequentate; il lavoro di cui parlo lo potete vedere grazie al riconoscimento che gli ha attribuito il Grin, l’organizzazione che raggruppa i photoeditors che lavorano in ambito editoriale e che ogni anno premia il miglior progetto fotografico.
La motivazione del riconoscimento recita così: «Corpi di reato è un tentativo di dare visibilità ai fenomeni mafiosi attraverso la fotografia: un’indagine sul territorio volta a mostrare i segni e le ferite dell’azione criminale in Italia, un viaggio che percorre il Paese nella costante ricerca di elementi, storie e frammenti».
Ma cos’è Corpi di reato? È un progetto a lungo termine di due autori tanto diversi tra loro da poter stare assieme. È una raccolta di immagini di luoghi, oggetti, reperti, documenti, romantica e artistica ricostruzione affidata alla fotografia, che racconta una piccola parte della complessa storia delle mafie attraverso ciò che le stesse hanno generato: discariche abusive, covi di latitanze pluridecennali, luoghi di ritrovo per riunioni segrete, reperti di attentati, fascicoli processuali.
È un lavoro indiziario, se mi si consente l’uso del termine, in cui questa fotografia, equilibrata e cauta, riproduce quello che trova attraverso un lavoro di studio, di ricostruzione storica, di indagine.
Mi piace pensare ancora alla fotografia come strumento d’indagine. E mi piace ancora di più pensarlo di fronte a questo lavoro così netto, pulito, discreto, coerente in cui i due autori non scivolano nella necessità di stupire e di piacere.
Rigorosi e attenti, consapevoli di quello che hanno tra le mani, maneggiano memorie dolorose con matura cautela, potrebbero inciampare nel giudizio ovvio e utilizzare il colore delle loro immagini per drammatizzare o smorzare e potrebbero, con facili tecnicismi, manipolare la luce e scrivere una storia tragica. Non lo fanno, non ci cascano.
E io sono contenta e sollevata di parlare oggi di questo progetto invece di scrivere e arricchire il dibattito sul fotogiornalismo corrotto che svalorizza la fotografia documentaria attraverso le esasperate manipolazioni, digitali e non. Meglio parlare della fotografia che è ricerca di fonti e paziente catalogazione, capace di rendere visibile l’invisibile.
Oggetti e luoghi che potrebbero essere consegnati al silenzio per sempre, trovano voce e una ragione di nuova esistenza. Le immagini concatenandosi compongono una storia, quella che Bonaventura e Imbriaco hanno costruito con molti viaggi da nord a sud e viceversa, senza mai avere fretta ma cercando, con le associazioni sul territorio, con i parenti delle vittime, negli archivi delle istituzioni, tutti quei dettagli che messi insieme ci propongono nuove domande, suscitano i dubbi e interrogano la memoria su vecchie storie dimenticate.
Titillando quella coscienza civile che sopravvive a questo tempo difficile, la fotografia svolge qui la sua silenziosa missione d’impegno intellettuale.
Bonaventura e Imbriaco sono consapevoli delle loro responsabilità. Studiano e verificano, esploratori di territori impervi, montano e smontano, tenendo una distanza riflessiva da ogni cosa: case, oggetti, luoghi. Come è giusto che sia, come ci si dovrebbe porre di fronte a ogni lavoro fotografico e non solo.
Anche noi siamo invitati ad osservare scegliendo la distanza migliore per godere del racconto: grandi stampe affiancano dettagli di formato minore in una narrazione mai scandita in modo casuale ma forte di un equilibrio maturo che ci accompagna nel percorso dolente della storia delle mafie che poi non è altro che la nostra storia.