Esserci o non esserci
Puoi raccontare la guerra senza andare dove si combatte? Senza rischiare e senza portare a casa quel documento “necessario”?
Proviamo a capirlo.
Ha suscitato un vivace e inaspettato dibattito il lavoro di un giovane autore italiano, Giorgio Di Noto che non ha mai fotografato nei teatri di guerra. E dunque, dove le ha realizzate queste immagini, se non si è mai mosso di casa? Egitto, Tunisia e Libia sono passate davanti ai suoi occhi sugli schermi del computer. La rete e soprattutto i social network hanno offerto una quantità di materiale straordinario e il nostro reporter per caso lo ha fotografato con la pellicola istantanea in bianco e nero, Impossible, figlia della cara e vecchia Polaroid. Il lavoro, chiamato semplicemente The Arab Revolt, ha vinto il Premio Pesaresi, nell’ambito della manifestazione Si Fest, Savignano Immagini, lo scorso 15 settembre. E qui iniziano i problemi. I tanti, troppi, fotogiornalisti che sul fronte di guerra ci sono andati, si sono infuriati. È nato un dibattito virtuale in cui sono stata invitata o coinvolta. Ci ho pensato un po’ e provo a dire la mia.
Giorgio Di Noto non c’era, probabilmente, non ambiva neppure ad esserci negli inferni tunisini, libici o egiziani. Ha fatto un’operazione concettuale: fermando il flusso delle immagini di consumo del web e riproducendo la scena sullo schermo l’ha bloccata, fissata in un tempo senza storia e senza informazione giornalistica, per restituirla alla storia stessa rielaborata come documento visivo. Non è il primo e non sarà – mi auguro – l’ultimo. La realtà e le sue problematiche si possono interpretare con linguaggi differenti, solo per citare i primi che mi vengono in mente: The day nobody died di Adam Broomberg & Oliver Chanarin del 2008 oppure il lavoro in Congo di Richard Mosse e soprattutto quello pluricelebrato di Michael Wolfe da Street View.
Giorgio Di Noto, classe 1990, tuttora studente di filosofia, opta per una scelta personale: il suo The Arab Revolt, non parla di fatti, luoghi e persone. Non ci sono didascalie a segnalare eventi e circostanze. Fotogrammi numerati in sequenza da 1 a 30 senza testo, senza data. Compone un corpo leggero di trenta immagini, filtrato e dunque interpretato secondo la sua percezione visiva/emotiva e delle rivolte arabe offre una personale rilettura. L’intento è manifesto. Il risultato estetico anche affascinante ma non è questo il punto. Sono visioni-impressioni. Iconografia delle rivolte, sciolta in una cromia passata che amalgama e confonde e la confusione, in questo caso, pone domande. Questo lavoro, in mostra dal 15 ottobre nell’ambito della manifestazione romana Fotoleggendo presso la s.t. foto libreria galleria, vale il post.
Perché? Perché fa discutere, dentro e fuori il circuito del fotogiornalismo. Infastidisce nella semplice azione di mostrare i cliché e, riproducendo forse con ingenua malizia, le geometrie delle icone fotografiche, mostra la bulimica ripetitiva ossessione della fotografia di massa delle moderne guerre, tic e vezzi inclusi. Fa infuriare ma a torto. Perché, se a chi crea e utilizza immagini, questa operazione concettuale tanto semplice invita a riflettere su cosa fotografiamo, cosa guardiamo e cosa scegliamo di mostrare, vuol dire che è efficace.
Fa infuriare a ragione, invece. Poiché assegnare un premio in denaro per proseguire un progetto – che per sua stessa natura è già esaurito – dedicato alla memoria di un indimenticato amico e compagno di strada come Marco Pesaresi, che della fotografia di strada e della magia del reale ha fatto la sua cifra poetica, è profondamente sbagliato, nel contenuto e nel contesto. Altri spazi e altre competizioni possono dar voce ai molteplici linguaggi della fotografia contemporanea. Questione di stile.