Julie
Qualche mese fa il World Press Photo mi ha chiesto di scrivere per la loro rivista ispirandomi a un’immagine. Ci ho pensato a lungo. Com’è facile immaginare, la fotografia, anche se ha solo 160 anni, offre molte singole immagini su cui parlare. Però pochi giorni prima della richiesta del WPP mi ero imbattuta, quasi per caso, nella mostra di Darcy Padilla al Festival della Fotografia Etica di Lodi. Allora ho scelto con la pancia (o col cuore, se preferite) l’ultima immagine che avevo visto e che mi aveva emozionato, e ho scritto di Julie.
Ora quel testo – nella versione italiana e integrale – lo metto a disposizione per invitarvi a vedere la mostra che transita di nuovo in Italia, con un passaggio a Roma dal 29 settembre al 2 novembre alla galleria 10b Photography nell’ambito della rassegna Fotoleggendo.
Vale la pena andare a vedere questa storia, con gli occhi e col cuore.
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Questa donna si chiama Julie.
Ha vissuto a San Francisco, poi in Alaska.
Ha avuto dei figli che le sono stati tolti e di cui non ha più saputo nulla.
L’ultima figlia, Elyssa, vive con il suo compagno Jason.
Julie è morta di AIDS nel 2010.
Questa immagine è del 1993. Una delle prime realizzate da Darcy Padilla per questo lungo racconto che dura da quasi vent’anni.
Ci sono Julie e sua figlia Rachel in braccio. Le dita della mano poggiano sullo zigomo, a distorcere il volto in una smorfia di dolore. Lo sguardo è distante, fissa qualcosa che non c’è.
Il sonno della neonata è perfetto. C’è una terribile distanza tra madre e figlia.
Fuori dalla grande finestra percepiamo gli elementi della città: un uomo che passa, un palazzo di fronte, una macchina parcheggiata. Quanto basta.
Sullo sfondo dell’immagine, nell’oscurità, un uomo beve da un bicchiere bianco.
Ogni soggetto dentro questa immagine non entra in relazione con l’altro.
C’è più del dolore, c’è l’impossibilità dell’amore.
La luce che illumina il volto di Julie esclude e separa accentuando il senso di isolamento.
Non è una storia di anonima marginalità.
Qui tutti i protagonisti hanno nomi e cognomi: persone e luoghi.
Non ci sono eroi e nessuno diventa simbolo. Nulla lascia spazio agli stereotipi.
Per questo ne parlo, perché qui la fotografia torna a svolgere la sua peculiare funzione documentaria. Non corre il rischio di trasformarsi in ciò che non è. Non c’è trucco, ma paziente e meticolosa costruzione che mantiene una purezza quasi ingenua, rendendo la narrazione integra e, attraversando gli ultimi due decenni della nostra storia, ci parla di povertà, di dipendenza e solitudine, di amore e di intimità. Senza regalare salvezze.
Al contrario offre emozione e compassione. Questo è la fotografia documentaria di cui il fotogiornalismo ha bisogno di nutrirsi per tornare a essere testimonianza del reale.
Ho visto le prime fotografie di Julie anni fa e, di qua dall’oceano, ho continuato a seguire la sua vita.
Le ho riviste a New York nel 2010. “The Julie Project” era stato premiato come alto esempio di fotografia umanitaria dallo W. Eugene Smith Grant. Con crudele sincronia, Julie era morta pochi giorni prima di sapere che la sua vita era stata per sempre consegnata alla storia.
Un mese fa, quasi casualmente, ho visto la mostra di “The Julie Project”. Le immagini,
montate in sequenza cronologica dal 1993 a oggi, avevano didascalie precise, arricchite dagli appunti della fotografa: impressioni personali, trascrizione delle telefonate tra lei e Julie, ogni piccolo e grande evento della sua vita era stato registrato da Darcy.
Per niente didascalico ma potentemente capace di farti leggere una storia in cui le fotografie guidano la narrazione e le parole completano il racconto.
Sono certa di non essere stata l’unica, tra il pubblico, a provare dolore e senso di perdita.
Tutti avevamo perso Julie.
Lungo le pareti della mostra in cui avevamo seguito la sua vita, l’avevamo conosciuta assistendo alla trasformazione del suo corpo: quella della malattia e delle gravidanze.
Osservando il suo volto trasfigurato dalla droga o dal dolore, l’avevamo conosciuta e, con lei, i protagonisti della sua vita, compagni di strada, figli persi e padri ritrovati, ognuno con il proprio nome. L’abbiamo accompagnata dalla California all’Alaska: dagli alberghi ricovero alle case improvvisate, scenari di un’altra America.
E così da Julie e da Darcy ho imparato due fondamentali lezioni: che per raccontare qualcosa bisogna concedersi e concederle il tempo della storia e che il fotogiornalismo, quando mostra le vite di donne e uomini, deve abbandonare l’anonimato, perché ognuno ha bisogno di essere chiamato con il proprio nome e perché ogni istante di vita appartiene ai suoi protagonisti.
E che noi, con gli occhi affollati di immagini indiscriminate e indistinguibili, di fronte a Julie, dobbiamo inevitabilmente tornare a guardare con il cuore.