Il diario del World Press Photo
Ora che sappiamo che la donna yemenita è una “vera” madre possiamo sperare che anche i più critici, che nell’iconografia della madonna yemenita vedevano “forzature” – a mio avviso tanto ovvie da non esserlo- si placheranno con buona pace di un’edizione del World Press tanto equilibrata ed esaustiva. Del resto è sempre piacevole avere tanti consiglieri e suggeritori, Paese di grilli parlanti e intellettuali cresciuti alla scuola della tuttologia, non ci stupisce che la fotografia si presta al giudizio facile. Chiunque può dire bella questa foto, brutta quest’altra. Con la letteratura siamo più cauti e con la scienza poi non ne parliamo. E dunque le immagini sono qui al giudizio di tutti ma scelte da chi ci lavora e le ama.
A distanza di una settimana dalla premiazione, per capire come funziona questa giuria, come analizza e con quale percorso sceglie le immagini dell’anno appena passato, ho messo insieme aneddoti di piccoli appunti delle giornate del World Press. È un contributo alla riflessione per aspiranti vincitori, giurati, commentatori e curiosi di ogni genere.
(Tutte le foto vincitrici del premio)
Si arriva ad Amsterdam con il termometro che segna -15 °C. Nella sala riunioni dell’Hotel Hilton siamo costretti a presentarci, chi siamo e che facciamo, e a dire, come se non bastasse, perché amiamo la fotografia e che ruolo ha avuto nella nostra vita. Siamo in tanti: primo e secondo round jury. Un imbarazzo terribile che fortunatamente passerà in fretta. Non prima di aver fatto la foto di gruppo, all’aperto, guardando in macchina, sorridenti. Si comincia il giorno dopo. Riuniti nella canonica della chiesta di Jacob Obrechtstraat al numero 26, zona sud di Amsterdam il lavoro si svolge ovviamente al buio in un sottotetto piuttosto gelido, tanto che ci forniscono coperte e generi di conforto.
Un tavolo circolare ci accoglie: siamo i nove giurati del “second round jury” più la segretaria, la magnifica e impeccabile Daphné Angles, nella vita, coordinatrice del dipartimento fotografico del New York Times in Europa. La segretaria non ha diritto di voto ma il suo ruolo è strategico: porta la calma nei momenti di tensione, ti ricorda le rigide regole e ti costringe ad andare avanti quando hai solo voglia di smettere e chiudere gli occhi. Siamo quelli che giudicheranno le poco più di 100.000 immagini rimaste in gara, dopo la prima scrematura della giuria del “first round jury”. Risparmio i rituali e le pagine del regolamento, la consegna del silenzio eccetera.
Il primo giorno iniziamo a vedere le “Stories” delle nove categorie, ognuna composta da un massimo di 12 immagini. Sono arrivate immagini da più di 5247 fotografi di 124 nazionalità. Si entra così nel buio delle proiezioni.
La sezione dedicata allo sport è una delle prime: vediamo poche immagini di competizione e molte storie. Più che agonismo, ci stupiscono racconti di comportamenti sociali in aree difficili del mondo; il free wrestling messicano del fotografo polacco Tomasz Gudzowaty, che non so più quanti premi ha vinto, non solo al World Press. Rigoroso bianco e nero, fedele a se stesso con un linguaggio fotografico che concatena ogni singola immagine e poi ogni storia a quella precedente: come se stesse costruendo un affresco di mondi marginali in cui la “fisicità” dello scontro nello sport è il pretesto per l’incontro.
E vale lo stesso per i giovani russi che, nel fango di un ex fabbrica sovietica abbandonata, se le danno di santa ragione. Sono i moderni guerrieri della “strelka”, la lotta libera di Alexander Taran, che in un bianco e nero deciso e drammatico non ci dicono dello sport ma dei nuovi cameratismo delle periferie urbane. Tutto passa al setaccio della discussione e, nonostante siamo pregiudizialmente contrari ad escludere il colore dai premi della categoria sport, alla fine dobbiamo cedere alla consapevolezza che, se i migliori prodotti della fotografia sono in bianco e nero, vuol dire che dopo un’overdose, durata anni, di colore esasperato dall’elaborazione del photoshop, forse questo ritorno al linguaggio in bianco e nero è una necessità dei tempi. Non si spiega altrimenti anche il bellissimo lavoro sui campionati del mondo di nuoto di Shanghai di Adam Petty. Premiamo anche lui.
Vincono tre storie in bianco e nero, nonostante le interminabili discussioni sul senso di uno sport rappresentato senza colore. Non possiamo farci niente. Seguiamo un istintivo criterio di qualità. Entriamo nella sezione Natura, quasi a voler scivolare piano dentro questa folle competizione, temiamo il frullatore delle storie di attualità con le loro immagini tragiche da ogni angolo del mondo. Ora guardate questa heteropoda, e immaginate che ci abbia fatto tanto sorridere. È il frutto della spedizione scientifica Malaspina. Ribattezzata da noi the lady, aggiunge un’ulteriore riflessione sul ruolo della fotografia oggi: sui vari utilizzi e sulla sua capacità di produrre conoscenza.
La sezione Natura ci ha offerto molte possibilità, anche quella di sposare il contenuto e la “visione” della magnificenza. Da un lato le grotte, alte 200 metri del Vietnam, meravigliosamente fotografate da Carsten Peter del National Geographic, stupiscono per la loro bellezza, dall’altro la guerra ai rinoceronti per commerciarne il corno: un business che vale quanto quello dell’oro, documentata da Brent Stirton. Non dobbiamo lottare, c’è unanimità. le immagini che abbiamo di fronte sono abbastanza straordinarie. Solo la difficoltà di scegliere e di escludere. Il rapporto persona-natura ci sembra più forte e suggestivo, non a caso un premio va alla foto subaquea dell’italiano Francesco Zizola, più conosciuto per i soggetti sociali e antropologici. Dallo sport alla natura per arrivare alla categoria General News dove si entra prepotentemente nell’attualità. Ci appassioniamo, discutiamo su ogni singola immagine.
Parlare dello tsunami ci incute timore. Dove il dramma è gigante tutto sembra rappresentarlo poco e male. Chiediamo a Koji, il nostro membro giapponese della giuria, cosa rappresenta questa o quella immagine, cosa ha visto, cosa lo emoziona e cosa sembra più giusto dire con la fotografia oggi, un anno dopo Fukushima. Le vediamo più volte, con il metodo della rigida votazione che al primo turno esclude, al secondo include e al terzo necessita di sei voti per rimanere in competizione, siamo quasi sicuri che non avremmo potuto fare diversamente. . Lo tsunami del Giappone se è sconvolgente distruzione da un lato, dall’altro è il deserto delle città e dei villaggi dopo la fuga radioattiva. Scenari completamente diversi. Un mondo a pezzi in cui case
e automobili semprano pezzetti di Lego e un altro, abbandonato intatto, per fuggire il più invisibile dei nemici. In fotografia: il visibile e l’invisibile.
Cerchiamo un equilibrio tra emozione e documentazione. Dunque alla fine premieremo la visione apocalittica di Paolo Pellegrin , fotografo della Magnum, che torna a vincere al World Press Photo e riporta magistralmente l’attenzione sulla fotografia di autorevole tradizione e di racconto epico del “visibile”. Ma non tralasceremo le delicatissime immagini di David Gutterfelder, fotografo di Associated Press, tra i primi ad arrivare sul posto che, impaurito e scioccato, ha realizzato queste immagini di invisibile disastro ma di toccante sconcerto. Sono i dettagli di vite abbandonate in fretta: letti sfatti e impronte di fughe in strade deserte. Rileggetevi l’intervista del Lens Blog del Nyt del 14 aprile scorso.
Cominciamo a prendere appunti perché sappiamo che vedremo tanto, troppo. Ogni storia ha il suo codice alfanumerico. Alla fine degli otto giorni ho un quaderno che sembra il taccuino di un matematico o di un agente segreto. Scorre via un giorno in cui è già passato un anno. E sarà così anche per i successivi. La notte, l’ho già scritto sul mio giornale l’anno scorso (Io donna, il femminile del Corriere della Sera), non si dorme: tutti quei volti e quelle storie scatenano una lotta tra coscienza e fantasmi, paure e curiosità in un valzer notturno a cui bisogna solo abituarsi. E non ci si abitua.
Siamo alle rivolte arabe dove, dalla serie dei ritratti di Alex Majoli scegliamo un ritratto potente, straordinariamente innovativo per linguaggio e scelta di ripresa, vince il primo premio, a sottolineare come si possa ancora oggi “inventare” un nuovo modo di raccontare l’attualità. Una conferma della vitalità del fotogiornalismo che cerca nuovi modi di testimoniare. La Libia con la battaglia di Ras Lanouf dell’11 marzo danno il premio al giovane francese Remi Ochlik, già sui teatri di guerra non ancora ventenne ad Haiti e poi in Congo. Linguaggio classico, scene di guerra, colori decisi, inquadrature dal basso, ottiche ampie. In questi casi ci chiediamo se stiamo premiando la fotografia o il coraggio. Forse entrambi ed è giusto così.
Si prosegue e si comincia a fare amicizia. Se il primo giorno ti chiedi cosa ho in comune io con quel tizio o l’altro, dopo nove giorni scopri che ognuno di loro ti ha insegnato qualcosa o ti ha offerto una prospettiva da cui guardare e poi giudicare le immagini che non avevi mai avuto prima. Si discute. Sembra ci sia troppo bianco e nero nei reportage che vediamo. C’è chi sostiene la libertà di visione e chi pensa che il colore abbia sostituito il linguaggio del vecchio fotogiornalismo. Vale ancora un dibatttito che contrappone bianco e nero al colore e pellicola al digitale? O non siamo forse in condizioni di superare i tecnicismi e raffinare la “lettura” delle immagini stesse?
Sono giornate eterne che sembra non finiscano mai. Scandite dalle pause con infusi di foglie di menta e caffè per i momenti peggiori. Al buio per più di dieci ore al giorno, sotto delle coperte colorate facciamo di tutto per tenere gli occhi bene aperti e la memoria pronta per archiviare quello che ci sembra necessario. Sentiamo e condividiamo la responsabilità di consegnare alla storia testimonianze del nostro tempo. E così i ritratti delle “femen” ucraine di Guillaume Herbaut ci sembrano un documento anche se non tutti siamo concordi sul tipo di “costruzione” del ritratto stesso. Linguaggio contemporaneo o più semplicemente, compiacente esibizione?
Unanimi nel giudizio positivo al ritratto della sopravvissuta alla devastazione dello tsunami giapponese di Denis Rouvre anche se in questa luce e nell’incalzare delle rughe del volto c’è tutta la necessità dell’autore di drammatizzare quello che è già drammatico. Come non premiare l’intelligente affresco di Simon Norfolk e John Burke che ci racconta, tra fotografia ripresa e riprodotta, la storia di una Paese, l’Afghanistan e dei suoi occupanti. Operazione apparentemente semplice ma efficace che suscita stupore e impone la riflessione.
Alla sua 55° edizione il World Press Photo può essere ben fiero di esistere, di assegnare riconoscimenti che danno valore ai lavori a lungo termine o ai fotografi che vanno in prima linea e di veicolare la sua mostra in più di cento paesi del mondo per far conoscere e avvicinare, attraverso un linguaggio come quello fotografico, le persone alla conoscenza del mondo. Nel mare degli inutili premi che per pochi spiccioli offrono glorie di un giorno e creano curricola artificiali, il World Press con la sua longeva e ortodossa ostinazione di rimanere uguale a se stesso, conserva quell’austera sobrietà nordeuropea che ancora fa soggezione.
Torniamo alle categorie. Una di quelle introdotte di recente è “Contemporary issue”: può starci dentro di tutto e infatti se guardiamo i vincitori troviamo storie di drammatica attualità come le impiccagioni in Iran, a cui sentiamo di dovere il premio per mostrare, affinché si sappia, si veda e si creda poiché nulla è più potente di una fotografia nelle verità manipolate delle dittature. “E’ vero, perché l’ho visto” ci capita spesso di dire; così di fronte all’immagine delle donne col niqab che guardano l’impiccagione dovremo ammettere, è vero, lo spettacolo è vero! Si discute sul ritratto di Simona Ghizzoni: di maniera o autentico?
Postprodotto con sapiente photoshop o fedele ripresa di un’atmosfera eccezionale che lo rende così poetico? Siamo nella striscia di Gaza e ancora una volta in presenza di una donna come a santificare il vittimismo di genere. Eppure le donne vittime lo sono davvero: che siano spose bambine o vedove, comunque escluse dalla gestione economica e politica della società in cui vivono. Dunque le spose bambine dello Yemen, una tappa del lungo viaggio dell’americana Stephanie Sinclair che da tempo attraversa i Paesi dove è ancora in uso questa feroce violenza di dare in spose bambine di cinque o sei anni a uomini di 25 e più.
Discutiamo di Alzheimer, di periferie urbane, di reportage, nella categoria Daily Life che mostra le diversità della vita quotidiana. E una delle categorie più complesse, dove il livello del linguaggio fotografico è altalenante e giudicare è molto delicato. È una delle categorie peggiori o migliori, dipende quanto siamo stanchi. Una di quelle in cui si affolla il reportage, il fotoracconto della realtà. Chi segue un progetto o racconta una storia di marginalità o di domestiche disgrazie vuole vincere un premio. Migliaia e migliaia di immagini. Non è allegro il mondo visto da qui, non è un posto per fragili e indifesi. Non lo sono i russi nelle loro periferie urbane di Alexander Gronsky Non lo è la solitudine di un uomo ultra novantenne che perde la moglie, malata di Alzheimer, dopo averla accudita dell’argentino Alejandro Kirchuk. Il linguaggio è incerto, didascalico ma l’ingenuità e la tenerezza del racconto per questa giuria valgono di più.
Scorrono le immagini di guerra della sezione Spot news: ci soffermiamo sui lavori realizzati con l’applicazione ipstamatic di Apple. Si scatena la discussione. Chi per il sì, chi per il no: fotografie contrastate, colori artificiali, semplicità di ripresa. Turismo fotografico direi io. Non passano. Inutile battagliare. Eppure a me interessa tutto ciò che viene ripreso, nessuna preclusione. Mi interessano le immagini e il loro significato ma forse, più di tutto, la loro forza emozionale e i misteri che celano nel loro mutismo.
Qui al World Press senti il dovere di giudicare la qualità del lavoro dei fotografi, la difficoltà in cui hanno operato, i limiti esterni che hanno incontrato: rischi, pericoli, divieti. Senti il rischio di iconizzare il dolore, di cadere negli stereotipi. Più volte al giorno ci accusiamo di cadere nei cliché. Attribuendo ad ogni immagine il suo potere di veicolare non solo i fatti ma le emozioni e i sentimenti si rischia sempre di non farla essere libera. Guardiamo, con la nostra personalissima lente, le ferite del mondo e con il nostro patrimonio intellettuale lo giudichiamo.
Manocheer Degati, uno dei giurati, responsabile Associated Press dell’ufficio del Cairo ci convince dell’importanza dell’immagine di Mubarak, fin troppo facile icona della fine di un dittatore. Però in questa competizione dove a farla da padroni sono i fatti, è giusto avere il “volto”. Siamo in “People in the news”, stessa sezione in cui c’è la foto di Samuel Aranda della “madonna yemenita” che diventerà pochi giorni dopo, la foto dell’anno 2012. Primavera araba e strage in Norvegia: rabbia e compassione, dobbiamo tener dentro tutto. “Spot news”, il racconto dei primi giorni in piazza Tahir con le foto del giovane italiano Eduardo Castaldo, lavoro coerente, ogni immagine un frammento dell’atmosfera della piazza: l’accento della fotografia si pone sugli uomini, colletti bianchi del nuovo Egitto pieni di furore. Una fotografia pulita, attenta al colore, senza enfasi, matura con una forte ricerca narrativa.
Alla fine dei premi, assegniamo una Honable Mention al bellissimo e commovente lavoro di Darcy Padilla che aveva già vinto con la storia di Julie e che, dopo la morte di lei, continua la struggente documentazione della vita del suo compagno Jason e della loro figlia. Un progetto lungo diciannove anni.
Questo diario sono solo frammenti di giornate davvero intense in cui abbiamo attraversato le guerre, la povertà, le solitudini urbane e le devastazioni ambientali e guardando questo nostro amato mondo viene voglia di farne un altro.