10 punti sulla riforma del Senato
Non capisco perché drammatizzare tutto: non è molto serio sotto il profilo costituzionale e generalmente politico porre sempre degli aut aut, cambiando tra l’altro quasi sempre formula e contenuto.
Il Senato così come è stato ripensato nella proposta di Renzi di ieri è diverso dal Senato che era stato descritto nella proposta di Renzi di qualche settimana fa. Entrambi funzionano molto poco e non si può pretendere che si voti una riforma costituzionale perché altrimenti Renzi lascerebbe la politica. Sarebbe sbagliato che lui la lasciasse, ma non per questo si deve votare a forza qualsiasi cosa, soprattutto se si tratta di una riforma costituzionale.
Ma vediamo più nel dettaglio che cosa è successo.
Ieri, nel giorno in cui l’Italicum (il nuovo Porcellum) veniva approvato alla Camera con una maggioranza assai più ristretta del previsto (di cui non abbiamo fatto parte), molti – anche tra coloro che hanno contribuito all’approvazione – chiedevano già che il Senato si facesse carico di modificare gli aspetti più odiosi della legge (dalle candidature multiple alla mancata protezione della rappresentanza di genere, per limitarci a due esempi significativi). Eppure nello stesso giorno il Consiglio dei ministri proponeva che il Senato venisse eliminato, non per arrivare al monocameralismo (opzione discutibile, ma certamente dignitosa), ma per essere sostituito da una confusa Assemblea delle autonomie, incapace di risolvere adeguatamente i problemi di funzionamento del Parlamento.
La proposta desta molta preoccupazione e – lo diciamo subito – merita di essere abbandonata in favore di una seria riforma del bicameralismo, snella ed efficace, capace davvero di restituire agli elettori la capacità di decidere attraverso un Parlamento in grado di funzionare bene. Si tratta di una questione che intendiamo seguire con molta attenzione perché il rapporto elettori-eletti, già umiliato dalla legge elettorale che è stata scelta (e che ancora speriamo di cambiare), ci sta molto a cuore. Intanto, vediamo sinteticamente i punti della riforma proposta:
1. dopo quasi un anno di riforme costituzionali annunciate e non realizzate, di procedure di revisione costituzionale derogate per essere abbandonate a metà, pensavamo che ci si potesse concentrare su alcune limitate modifiche, per migliorare il funzionamento del Parlamento, come era stato più volte detto. Invece, siamo tornati essenzialmente a una riforma complessiva della seconda parte della Costituzione, che coinvolge oltre quaranta articoli (43 se non ho contato male) e, all’interno di questi, svariati commi, abbracciando i titoli I, II, III, V, VI della Costituzione;
2. quella proposta non è – come si è detto – la riforma del bicameralismo perfetto, ma la sostituzione del Senato degli eletti (dai cittadini) con un’Assemblea dei nominati (chiamata Assemblea delle autonomie), per buon parte con modalità rimesse a una legge che chissà quando verrà, e che sembrano in gran parte destinati a rispondere a specifici interessi territoriali in contrasto tra loro ed eventualmente con quelli generali. Questo è sancito dall’eliminazione del riferimento alla rappresentanza della nazione, cioè, appunto dell’interesse generale;
3. un cospicuo pacchetto di senatori (ventuno) sono addirittura nominati dal Presidente (che poi potranno confermare o di cui eleggeranno successore) secondo un modello che risulta ormai fuori dalla storia ed è essenzialmente privo di riferimenti comparatistici;
4. la Camera dei deputati che pure avrebbe richiesto modifiche migliorative rimane tale e quale, con ben 630 deputati (senza neppure alcun riferimento a riduzioni dell’indennità o a modifiche di anacronistici privilegi dello status di parlamentare);
5. viceversa, i membri dell’Assemblea delle autonomie non risultano più parlamentari, come testimonia anche l’assenza delle relative garanzie di status, risultando così evidente che non si tratta di una seconda Camera, ma al più di una Camera secondaria;
6. il procedimento legislativo non è ben congegnato (in parte ancora farraginoso) e soprattutto contiene una norma che rimette al Governo la possibilità di porre una “ghigliottina parlamentare” (prendere o lasciare l’intero provvedimento), che altera profondamente la divisione e l’equilibrio dei poteri e svilisce il ruolo del Parlamento (o di ciò che ne rimane);
7. il collegamento con la riforma del titolo V risulta praticamente assente;
8. l’elenco delle materie di competenza statale aumenta nel numero e non in chiarezza;
9. l’eliminazione della potestà legislativa concorrente avviene con un mero tratto di penna, senza una adeguata valutazione che proprio l’inserimento di una Camera alta (se fosse veramente stata tale), sottratta al rapporto fiduciario e, per di più, espressiva delle autonomie avrebbe potuto consigliare;
10. viene introdotta una clausola di supremazia dello Stato che poteva essere meglio meditata e formulata.
La riforma nel suo complesso non traccia in sostanza nessun disegno coerente, raggiungendo forse un solo obiettivo: determinare una minore partecipazione dei cittadini alla vita democratica, rendendo le istituzioni sempre più lontane.