Perché non ho votato la fiducia
Non ho partecipato al voto di fiducia del governo Letta. Ho deciso così, dopo giorni difficili, dopo avere atteso risposte che non sono arrivate, dopo avere valutato tutte le alternative e le possibilità che avevamo di fronte.
Lunedì mattina, al gruppo, abbiamo finalmente discusso, ma “a cose fatte”.
Incredibilmente fino a lunedì non avevamo avuto la possibilità di affrontare la questione del cosiddetto governissimo (che avevamo per altro sempre escluso tutti quanti, almeno a parole), fino a lunedì non c’era stata un’occasione e una sede in cui offrire la nostra opinione all’attenzione dei nostri dirigenti, fino a lunedì non c’era stata la possibilità di decidere insieme quali fossero le ‘scelte’ del Pd.
Farlo lunedì, prima del voto in aula, è stato certo importante, ma molto tardivo e di fatto inefficace: perché, arrivati al giorno della fiducia, le alternative erano finite davvero e non avevamo alcuna possibilità di cambiare, modificare, correggere il corso delle cose, nonostante lo scetticismo e le cautele di molti (che molti hanno ribadito nella riunione del gruppo di lunedì).
Ho perciò preferito il dissenso all’ipocrisia e ho gentilmente respinto i richiami all’ordine, perché l’ordine si rispetta solo se in precedenza c’è stata la possibilità di esprimersi, di discutere e di votare sulla base di un’attenta valutazione del parere di ciascuno. Votare tipo «prendere o lasciare» non fa (o non dovrebbe fare) parte della cultura del Pd.
Nel mio intervento al gruppo, ho ricordato le preoccupazioni – per altro confermate in aula dagli interventi nostri e del Pdl – circa le ambizioni che mi paiono eccessive di questo governissimo, i suoi tempi smisurati (senza scadenze, anche intermedie, a meno di voler pensare che i 18 mesi citati da Letta siano una scadenza intermedia credibile) e soprattutto la vaghezza delle sue priorità, che infatti sono state diversamente interpretate dai gruppi politici che si sono offerti di sostenerlo: chi parla di cancellazione dell’Imu (addirittura della sua mitica restituzione) e chi dice che l’Imu non va tolta, o tolta solo in parte, per occuparsi piuttosto dell’abbassamento delle tasse sul lavoro (per quanto mi riguarda, cancellare l’Imu ai benestanti, in questo momento, è più o meno folle).
Ho ricordato che anche la convenzione delle riforme (anche detta sinistramente «bicamerale») va definita e precisata, e che avremmo dovuto definirla e precisarla prima di dirci d’accordo (e non c’entra nemmeno il fatto che a presiederla possa essere Berlusconi “di persona, personalmente”).
Circa il programma, ho insistito sul fatto che non è dato sapere quali siano le vere priorità di questo governo (Letta ha declinato decine di obiettivi e un programma dal passo lunghissimo), se esista una bozza di legge elettorale da cui partire, se insomma ci possa essere certezza delle prime cose che questa strana alleanza potrà varare nelle prossime settimane.
Da ultimo, ho ricordato che non siamo arrivati qui per caso, ma che il vero equivoco all’interno del Pd è stato determinato dall’ambiguità che lo ha attraversato circa le alleanze e le soluzioni tra le quali optare: qualcuno voleva questa soluzione, per capirci, e l’ha voluta fin dall’inizio. Ed è stata una decisione presa nell’ombra di un voto segreto e non «al grande giorno» di un dibattito in cui sì, ci si poteva dividere e discutere, ma almeno avremmo capito qualcosa di quanto stava accadendo. Così non è stato né bello, né serio affrontare le cose, in questo complicatissimo ingorgo istituzionale.
Negli ultimi giorni, il nostro è stato, per di più, un dibattito alla rovescia, nei tempi e nei modi, nel quale siamo partiti dalle conclusioni a cui saremmo dovuti piuttosto arrivare, passo dopo passo (e che per altro erano assolutamente negate dalle nostre stesse premesse).
Il mio, quindi, è un giudizio negativo e pessimistico, ma ho preferito non dichiararmi contrario in aula proprio per evitare una rottura che non è certo il mio obiettivo, che rimane invece quello di ribadire la necessità che anche nel Pd vi sia un punto di vista critico e capace di immaginare che le alternative ci sono o ci sarebbero potute essere, che siamo andati incontro a fallimenti gravissimi, che ancora non conosciamo nessuno dei famosi 101 che hanno deciso la partita, che non ci possiamo dire soddisfatti di un governo che non abbiamo voluto fare nei primi giorni del dopo voto, un governo che non ha uno scopo e una missione precisa, ma che si presenta come governo politico di legislatura, retto da Pd e Pdl (con la soddisfazione soprattutto di quest’ultimo, almeno nel rivendicare la soluzione dell’impasse).
Ho però preferito dichiararmi contrario, perché non è il momento di «votare sì per dire no», perché mai come oggi la mancanza di dibattito è stata fatale, perché la chiarezza è il primo mandato che abbiamo ricevuto dai nostri elettori. Che tutto si sarebbero aspettati, tranne lo spettacolo degli ultimi giorni e l’esplosione delle contraddizioni di un partito che non sapeva dove andare. O forse lo sapeva benissimo, ma non aveva mai trovato le parole per dichiararlo (ammetterlo?) e il coraggio di pronunciarle, se non per “interposto Napolitano”. E non è serio e non è bello nemmeno questo.
P.S.: è una presa di posizione solitaria, come è ovvio che sia e che fosse. Molti parlamentari a cui mi sento particolarmente vicino e affine hanno votato sì, pur condividendo molte delle critiche e delle cautele che ho cercato di rappresentare, proprio perché non siamo l’ennesima corrente che si vuole aggiungere alle millemila già esistenti e perché non vogliamo distruggere il Pd (come altri hanno dimostrato di volere e saper fare) ma piuttosto dargli una missione più credibile e un profilo più netto e preciso. Da domani, si (ri)comincia.