Aristocrazia e outsourcing
A leggere i giornali di questi giorni, a Milano e in Lombardia, ma non solo, sembra di essere ritornati indietro di un anno esatto, ai giorni in cui si formava il governo Monti. E forse anche di due millenni e passa, alla Politica di Aristotele.
Perché è tutto un fiorire di aristocrazie (e in alcuni casi di vere e proprie lobby o oligarchie, direbbero i più critici) che hanno il preciso intento di sostituirsi alle strutture democratiche per eccellenza, sfruttando la più straordinaria crisi dei partiti politici di tutti i tempi (soprattutto a destra, ma anche a sinistra) e la spinta di quella che gli antichi avrebbero definito oclocrazia, che ai nostri giorni si traduce in una sorta di iperdemocrazia diffusa (ed effusa) e che i commentatori si ostinano a chiamare antipolitica.
Si scelgono colori diversi da quelli tradizionali, si lanciano liste civiche nazionali, si passa dai nomi sul simbolo al nome sul simbolo (quello di Monti, quasi sempre a sua insaputa) e si attaccano classi dirigenti di cui si fa parte da sempre (è il caso di LCdM, che sorprendentemente continua a presentarsi come se fino a ieri avesse vissuto su Marte, e fosse rientrato sulla terra ad alta, altissima velocità nelle ultime settimane).
Non è chiaro chi sceglierà i rappresentanti di queste componenti civiche, che rifiutano il leaderismo degli ultimi anni, anzi di questo rifiuto fanno un manifesto politico, ma non possono non fare appello a leader o a simboli, amministratori o esponenti della società civile di grande visibilità mediatica.
Nella principale regione del Paese, il centrosinistra si è fatto da parte, trasformando le proprie primarie, prerogativa identitaria del Pd come poche altre, in una competizione promossa da uno schieramento di forze civiche: è rimasto l’indirizzo web, ma non la testata, e dal comitato promotore sono usciti i segretari di partito per far posto ai sindaci e agli aristoi.
Da tempo sostengo che i partiti debbano riconoscere la loro parzialità, aprirsi alle modalità nuove di partecipazione e di dibattito, riformarsi profondamente, non dimenticare mai di osservare i propri statuti e i propri codici etici, rendersi insomma scalabili e contendibili e quindi ospitali nei confronti dei movimenti e di quella società civilissima che giustamente preme e protesta e soprattutto propone: e mi incazzo proprio quando non lo fanno, quando si chiudono in se stessi, quando non danno voce alle proprie minoranze, quando non votano nelle proprie assemblee, quando non chiariscono il proprio profilo programmatico.
Che i partiti ammettano la propria inutilità, però, è un’altra cosa, ed è un passo eccessivo, a cui si è forse costretti proprio per avere mancato troppo spesso gli appuntamenti con se stessi e con i propri elettori, negli ultimi anni. Ma non credo che il modello per il futuro possa essere quello che in questi giorni si sta delineando.
Perché il superamento dei partiti a favore di questa o quella aristocrazia, è un passo indietro sotto il profilo democratico e il compimento di una crisi che così però non si risolve.
Perché per partecipare a questa nuova tipologia di organizzazione politica che si affaccia sulla scena politica italiana è importante essere già parte del gruppo dirigente (altro che storie), essere in contatto con ‘giri’ di una qualche importanza, ed essere in fondo cooptati dall’alto, proprio come accade, a volte, in quei partiti che si intendono superare.
Perché la rappresentanza è un tema comunque ineludibile ed è cosa complessa che non può essere affidata, a mio modo di vedere, a soluzioni episodiche.
Perché l’universalità del messaggio che un partito dovrebbe garantire non è una caratteristica che si possa abbandonare, proprio ora, nel momento più difficile per il nostro Paese, in cui non solo ci vorrebbero partiti di qualità, ma di dimensione e di sguardo, verrebbe da dire, di livello europeo. A meno di non voler promuovere una lista civica internazionale, sia chiaro (e sono certo che qualcuno lo farà, siate pazienti).
Perché la partecipazione, in una regione di più di dieci milioni di abitanti e in un Paese che ne conta più di sessanta, deve essere organizzata, avere le proprie sedi di dibattito e di confronto, e non può essere affidata soltanto al rapporto con questo testimonial o quel simbolo, che decide anche per conto nostro.
Perché proprio ora abbiamo bisogno di progetti collettivi, che si riferiscano a valori condivisi e che assumano un profilo chiaro, sotto il segno della sostanza e della comunicazione politica. Un “patto civico”, come quello lombardo, non è in contrasto con tutto questo: a ‘patto’, appunto, che ci si renda conto che i partiti non possono esserne esclusi o non esserne protagonisti. E che disarticolarli – come qualcuno non fa mistero di voler fare – può forse funzionare per una elezione, ma poi si torna al punto di partenza.
A ricordarcelo, tra l’altro, è la coincidenza per cui si voterà nello stesso giorno delle elezioni politiche. In cui saranno in campo opzioni alternative tra loro, come è giusto che sia, dopo un anno di aristo-tecno-crazia d’emergenza. O, almeno, personalmente me lo auguro.
Se i partiti danno in outsourcing la costruzione del progetto politico e gli stessi strumenti per promuoverlo, beh, diciamolo: non servono più a nulla, né possono poi credere di orientare il governo che si insedierà anche con i loro voti (che comunque ci sono e che andrebbero rispettati, in quanto espressione di elettori e di sensibilità e di passione politica). Né potranno pensare di rappresentare quelle istanze popolari che certamente hanno troppo trascurato negli anni scorsi, ma che non sono certo scomparse. Anzi.
N.B.: il Partito democratico era nato proprio con le finalità che cerco di descrivere qui. Con parole mie, ovviamente.