L’arca perduta
Sulle schifezze combinate con i rimborsi elettorali c’è poco da ridere: è una vergogna che certe cose siano state fatte e, soprattutto, sotto il profilo politico, che si siano potute fare.
La responsabilità della classe politica attuale, in questo senso, è altissima. E non è un caso che la legge che si doveva fare «subito» (già) sia stata rinviata ancora.
Ma se Lusi ci fa la figura dell’oscuro figuro, e la sua pur incerta chiamata in correità mette soprattutto tristezza, va detto che la vicenda Belsito ha qualcosa di sorprendente.
Già con la Tanzania non si scherzava, anche per via di quella rima, curiosa, con la patria che i leghisti si erano inventati. E come nel caso Ruby, il riferimento africano non poteva che far risaltare le contraddizioni più clamorose di un movimento che era padrone a casa propria, ma aveva anche dei bungalow, se mi permettete la metafora (e tra bunga bunga e bungalow si capiscono tante cose).
Ma la cosa più forte, e letteraria, e meravigliosa, è la restituzione di oro e diamanti a cui abbiamo assistito nelle ultime ore. Dieci lingotti d’oro e undici diamanti, dicono le cronache. E se i primi fanno molto spallone, i secondi ci invitano a spostarci dall’A4 dei capannoni e dei tir alla via della seta e alle carovane in viaggio verso l’Oriente. O, se preferite, da Pontida a Timbuctu, magari partendo da Lampedusa.
Che la Lega finisse con una scena da Alì Babà e un personaggio come Belsito – che giustamente Francesco Merlo accosta, oggi, a Indiana Jones – ci fa passare dai Soli delle Alpi di Adro ai tesori perduti d’Oltremare. A immagini salgariane (veronese, il Salgari, aveva previsto tutto), che ci fanno passare, senza soluzioni di continuità, dal Leone di San Marco alle tigri di Mompracem.
Dalle camicie verdi della Val Trompia ai predatori dell’arca perduta, insomma.
Anni fa, ho scritto un libretto che si chiama Regione straniera. Parlava della Lega, ma non pensavo certo che il titolo potesse diventare una metafora così influente. E che i simboli si rovesciassero in questo modo. Una sindrome e una nemesi, insieme. La sindrome di Varese, la chiameranno, forse, un giorno. Di chi difendeva il territorio, ma aveva voglia di viaggiare.