Paura, eh?
Ne avevo parlato tempo fa, della proposta di riforma della legge elettorale che ci riporta indietro di un ventennio politico, come se il processo di superamento della stagione berlusconiana e della cosiddetta Seconda Repubblica fosse ascrivibile al concetto psicanalitico di «rimozione».
Se l’espressione che avevo usato – Maialinum – vi sarà sembrata forte, Massimo Giannini parla, senza mezzi termini, di Macellum.
Ma il commento più azzeccato è quello di Claudio Tito, oggi, su Repubblica. Il titolo è: «Paura di perdere». E abbiamo detto tutto.
La paura di perdere le prossime elezioni. Sembra questo l’architrave su cui poggia l’accordo trovato ieri dai tre partiti della maggioranza che sostiene il governo “tecnico”. Sull’idea che nessuna forza politica – a cominciare da Pdl, Pd e Udc – sia in grado di scommettere sul risultato delle prossime elezioni politiche. Tutti sperano di tenersi le mani libere e ognuno punta a limitare i danni. Lasciando aperta la porta ad ogni soluzione per il dopo-voto. L’intesa preparata da Alfano, Bersani e Casini è soprattutto il frutto di una convergenza di interessi.
E lo dimostra l’idea di tornare a un sistema sostanzialmente proporzionale, cancellando il vincolo di coalizione e assegnando un premio che non determina la maggioranza. Di fronte ad una instabilità, tipica degli ordinamenti e dei sistemi politici transitori, i tre principali partiti si adattano alla “corsa solitaria” e mirano a rimettere tutti ai nastri di partenza nella previsione che nessuno potrà vincere da solo. Proprio come accadde nel 1946 con la legge elettorale per l’Assemblea Costituente e nel 1948 per la prima tornata parlamentare dopo la caduta del fascismo e l’entrata in vigore della Costituzione.
Dal conflitto d’interessi, insomma, siamo passati alla convergenza di interessi. Ne beneficiano tutti: quelli in crisi di consenso (come Alfano), quelli dalla coalizione perennemente incerta (Bersani), quelli che si ritroveranno con pochi voti, come al solito, ma nelle condizioni di determinare gli equilibri del nuovo governo e di prendersi tutto il cucuzzaro (Casini).
Del resto, il ritorno in grande stile dei personaggi che hanno calcato le scene in questi anni, in tutti gli spazi disponibili, ci dice anche che nessuno crede a una legislatura di rigenerazione, ma piuttosto a una legislatura che si regga sul patto tra forze politiche già esistenti (e i loro attuali rappresentanti).
Perché siamo tornati indietro di vent’anni, è chiaro?
Quindi, niente più bipolarismo, niente revisione sostanziale del bicameralismo (si parla di un pasticciatissimo «bicameralismo eventuale»). Però i partiti potranno indicare sulla scheda il nome del candidato premier. Salvo poi sceglierne un altro, se nessuno dei partiti dovesse avere la maggioranza.
E pensare che il Pd era nato per un bipolarismo forte (addirittura un bipartitismo, in una prima fase), che non ci piaceva più l’indicazione del premier sul simbolo, che tenevamo moltissimo alla governabilità e che soprattutto volevamo offrire ai cittadini impegni chiari, nitidi e inequivocabili prima delle elezioni (non gli accordi di Palazzo dopo le consultazioni). E per quanto riguarda la nostra famosa linea, si rileva che in due anni siamo passati dall’uninominale a doppio turno, al modello ungherese, a quasi sostenere (ma senza troppa convinzione) il ritorno al Mattarellum e, infine, a un proporzionale leggermente corretto.
Quanto alle scelte dei cittadini rispetto ai loro rappresentanti, le liste saranno bloccate, e non ci saranno preferenze. Secondo voi, i candidati, chi li deciderà?
A sentire il Franceschini di ieri, e il suo violento attacco alle primarie per scegliere i parlamentari, saranno quelli come Franceschini.