Il PD in outsourcing
Leggo dalla Stampa (ma potrei farlo partendo dalle note politiche di qualsiasi quotidiano), due esempi della situazione interna al Pd, a cui se ne aggiunge un terzo, quello della durata del governo, ovviamente.
Riforma elettorale: la proposta di Franceschini «piace a Casini, molto meno alla Bindi, ai veltroniani e ai promotori del referendum».
In particolare c’è chi dice che il modello tedesco «è inaccettabile», meglio quello spagnolo. E noi che eravamo rimasti all’ungherese e al Mattarellum? Boh.
Articolo 18: Fassina in tv si era espresso duramente, ieri sera. Oggi Letta: «sull’art. 18 ci vuole una discussione tra il governo e le forze politiche che lo sostengono». Siccome Pdl e Terzo Polo non hanno problemi a farlo saltare (si ricorda che ai tempi di Cofferati, per capirci, governavano insieme tutti gli esponenti di cui stiamo parlando, con l’aggiunta di Rutelli che non pare problematica), è il Pd l’unica «forza politica che sostiene il governo» che deve dare il via libera. Situazione delicata, se è vero che anche Bonanni (e lo zio, dobbiamo immaginare) sta con la Cgil.
A me, da elettore del Pd, questa situazione non pare sostenibile. Come ricordato, il Pd non discute della propria linea politica da settembre – se non nel famoso caminetto, dove tutti sembrano essere in disaccordo su tutto. E va benissimo salvare il Paese con una manovra che ci piace per tre quarti (facendo una media delle posizioni espresse in questi giorni), ma affidare la propria linea e l’intera direzione politica di un partito (che ha raggiunto il trenta per cento nei sondaggi, ma che potrebbe accusare un rimbalzo ‘tecnico’, any sense) all’esterno può essere alla lunga molto pericoloso. L’outsourcing non può essere esteso a tutto, e ipotecare le scelte presenti e future: si chiama eteronomia, e in politica (e non solo) non è esattamente una bella cosa. Soprattutto in vista di future elezioni. A meno che, in cuor nostro, non si sia già deciso che il Pd non esiste più.